Guardiola e Maldini, l’arte del perdere
di STEFANO RAVAGLIA
Chi scrive si aspettava che Pep Guardiola si fermasse già dopo l’ultima complicata stagione con il Manchester City. E invece, l’uomo al centro delle cronache da sempre per il suo albo d’oro ma soprattutto per la sua filosofia di gioco e il modo di vedere il pallone, ha rilanciato. E’ pronto ad andare in doppia cifra, ovvero ad affrontare la stagione numero 10 sulla panchina dei citizens. E poi? Successore dell’amico Guardiola al PSG? Il ritorno al suo Barcellona? Oppure l’ipotesi affascinante di allenare dove ancora gli manca, ovvero in Italia (difficile, se non impossibile, con quell’ingaggio)? Nulla di tutto ciò. In una intervista a GQ, Guardiola ha pubblicamente ammesso che si fermerà, seppur non abbia specificato né quando accadrà né quanto sarà lungo lo stop.
Pensare a sé, pensare alla famiglia, pensare ad altro. E’ già capitato a Conte e ad Allegri, tornati poi in pista, e nel caso del tecnico pugliese anche con ottimi risultati. Capiterà anche a Guardiola. Che ha parlato anche di quanto sia importante accettare la sconfitta e capire che alle cronache salgono solo i successi, quando invece è attraverso le sconfitte che si diventa grandi. D’altronde, se guardiamo le fotografie di famiglie in una qualsiasi casa, tutte brillano di una luce particolare, tutte sembrano sempre i ritratti della felicità. Ma è una foto in bianco e nero che ti porta da una immagine felice all’altra. “Anche Jordan ha vinto 6 anelli su 13 campionati disputati”, ha detto Guardiola. Sì, lui, Michael Jordan, quello dei Bulls. E anche Guardiola ha elencato i suoi insuccessi:
Mi torna in mente un altro grande, grandissimo, che manca al nostro calcio: Paolo Maldini. Come da sua stessa ammissione, di trofei persi ne ha inanellati parecchi. Tre finali di Coppa dei Campioni (1993, 1995, 2005), tre Intercontinentali (1993, 1994, 2003), la Supercoppa Europa del 1994 con il Parma, la Coppa Italia del 1990 contro la Juventus, che seguiva una clamorosa beffa in campionato contro il Napoli con annessi e connessi. Ora, accostare la parola “sconfitta” a Guardiola e Maldini pare un po’ azzardato, ma il messaggio è chiaro: non esistono gli invincibili. Non esiste chi non passa dalla forca della medaglia d’argento (chiamala forca…) per arrivare all’Olimpo. Le parole del tecnico del Manchester City sono lapalissiane e anche struggenti: “Ogni giorno dobbiamo dimostrare di essere felici. Io amo i falliti. Sono triste, fallisco e perdo. E allora? Dimmi uno che non lo fa. L’importante è provarci, dare tutto e farlo bene”. Guardiola, con questa uscita, ci ricorda l’importante della sconfitta ma anche dell’attesa. Abbiamo perso il gusto di tutto: si gioca sempre, troppo, a ogni ora, e se non c’è una competizione ce la si inventa. La necessità di fermarsi (è successo a Pogacar, ciclista, a Sinner, tennista, e succedeva anche a Federer) è sempre più importante nei ritmi infernali dello sport di oggi, che guarda caso sono i ritmi della nostra vita, in cui se non abbiamo impegni, allo stesso modo delle competizioni, ce li inventiamo. Raramente diciamo: “Oggi non ho nulla da fare e non organizzerò nulla”. Proprio Guardiola, la batosta più grande la prese nel 1994 per mano di Paolo Maldini. Milan-Barcellona 4-0, finale di Coppa Campioni, annunciata come una sicura vittoria dei catalani. Anche questo ha contribuito a formare il Guardiola tecnico. Perché oltre ad aspettare che la marea porti le cose, anche perdere ha il suo gusto dolce, dolcissimo.