Dropout giovanile, una piaga da studiare: “Ecco come invertire la rotta”, parola dell’Altro Giocatore
In Italia, un ragazzo su tre abbandona lo sport prima dei 16 anni.
È una fuga silenziosa, invisibile agli occhi di chi non la vive ogni giorno, ma dalle conseguenze immense: priviamo i giovani di salute, di amicizie, di esperienze, di valori che li aiutano a crescere. Il drop-out non è solo un problema sportivo: è un problema sociale. Ogni anno migliaia di ragazzi smettono di allenarsi, spariscono dai campi, dalle palestre, dalle piscine. È un’emorragia che ci indebolisce tutti, perché quando lo sport muore per i più giovani, muore anche una parte della nostra comunità.
Vanno studiate e capite le ragioni del drop out, non in modo autoreferenziale. Ma, ancora una volta, con gli occhi dei ragazzi e dei genitori.
Perchè lo sport nasce come gioco, scoperta e libertà, ma troppo spesso si trasforma in pressione e obbligo. Genitori che pretendono troppo, allenatori ossessionati dal risultato, costi insostenibili, tempi che non bastano. Così il divertimento svanisce e con lui la voglia di continuare. Chi abbandona non perde solo fiato e muscoli: perde amici, esperienze, valori che formano il carattere — il rispetto, la resilienza, lo spirito di squadra. In un’epoca in cui la sedentarietà cresce e l’isolamento sociale diventa malattia, lasciare che i giovani mollino lo sport è un lusso che non possiamo permetterci.
I danni sono, infatti ben visibili quando questo accade. Perchè fare sport non è solo movimento. È prevenzione, è salute, è crescita. I ragazzi attivi hanno un rischio di obesità inferiore del 30% rispetto ai coetanei sedentari; sviluppano capacità cognitive più solide e migliori abilità sociali; imparano a gestire lo stress e l’ansia. In Italia, oltre il 60% degli adolescenti trascorre più di tre ore al giorno davanti a dispositivi elettronici, spesso sostituendo l’attività fisica. Smartphone, tablet, videogiochi diventano compagni quotidiani, mentre l’aria aperta, il movimento, la fatica e il gioco vengono messi da parte. Così si perde non solo la forma fisica, ma anche la dimensione sociale e relazionale dello sport.
Eppure, lo sport può essere la risposta a tutto questo. Insegna la disciplina senza soffocare la creatività, rafforza il corpo senza spegnere la mente, favorisce amicizie e solidarietà. È uno spazio in cui ogni ragazzo può sentirsi protagonista, imparando a cadere e a rialzarsi, a rispettare sé stesso e gli altri, a comprendere che il risultato è importante, ma non tutto.
Invertire la rotta è possibile. Serve una visione nuova: allenatori formati come educatori, capaci di motivare senza schiacciare; società sportive che aprano le porte a chi gioca per amore del movimento, non solo a chi sogna l’agonismo; istituzioni che sostengano le famiglie, abbattendo costi e barriere. Serve uno sport che sappia tornare a essere piacere, scoperta, passione, prima ancora che competizione.
Lo sport è un bene comune. I giovani sono i suoi custodi naturali. Ogni ragazzo che abbandona è una storia che non si compie, un sorriso che svanisce, un valore che non si trasmette. Non possiamo permettercelo. Dobbiamo agire, insieme, per restituire ai nostri giovani il diritto a correre, a giocare, a crescere attraverso lo sport.
Come diceva Pietro Mennea: “La fatica non è mai sprecata. Soffri adesso e vivi il resto della tua vita da campione”.
Perché ogni ragazzo che torna a correre, a giocare, a sognare, diventa un campione non solo nello sport, ma nella vita.
L’ Altro Giocatore