Di poltroni, poltrone e poltronifici. Quando lo sport “non ha l’età”.
Riceviamo e pubblichiamo.
Lo sport è il linguaggio universale della giovinezza: corre, cambia, si rinnova. Un giorno vinci i 100 metri, il giorno dopo arriva qualcuno che ti svernicia con dieci anni in meno e gambe fresche. È la regola base della competizione: oggi tocca a te, domani a un altro.
Abbiamo scritto nei giorni scorsi che diventa longevo, si allunga, come passione e risultati ma…arriva per tutti il fatidico momento di appendere le scarpe al chiodo.
Anzi, è un’arte farlo al momento giusto.
Avviene in tutti gli impianti, tranne che in un posto: le stanze del potere sportivo. Lì non si corre, non si suda, non si smette mai di giocare.
Le poltrone non sono sedie, sono troni.
E su quei troni si resta fino a che la tappezzeria non diventa un tutt’uno con il fondoschiena.
Il paradosso è evidente. Buffon ha detto basta a 46 anni, Federica Pellegrini a 33, Usain Bolt ha salutato il mondo a 31.
Ma nei consigli federali italiani, alla stessa età, molti dirigenti non hanno neppure cominciato la carriera che li porterà al ruolo di “presidente eterno”. E a 70, 80, qualcuno quasi 90 anni, sono ancora lì a spiegare come “modernizzare lo sport”, spesso con la stessa passione con cui noi spolveriamo il videoregistratore.
Gli esempi abbondano, i casi di scuola pure, ma non li faremo.
Ci sono presidenti che collezionano mandati come se fossero figurine Panini, altri che governano da quando il fax era il massimo della tecnologia e ancora oggi parlano con diffidenza di email e social network. Alcuni resistono più di qualsiasi leggenda: mentre Totti e Del Piero hanno appeso gli scarpini da tempo, loro sono ancora lì, incollati alle sedie come chewing gum sotto i banchi di scuola.
Il paradosso è che mentre un atleta viene messo in panchina se non corre 90 minuti, un presidente federale può dormire in consiglio e nessuno dice nulla. Anzi è lui che mette in panchina tutti. Spesso con le buone o con le cattive.
E guai a parlare di “limite di mandati”: reagiscono come se stessi proponendo di vietare lo spumante a Capodanno.
Il problema non è l’età: ci sono settantenni che corrono maratone, e ottantenni che suonano il rock meglio di ventenni. Il problema è l’attaccamento patologico alla poltrona. L’idea che senza di loro lo sport si fermi. Nel frattempo, laureati in management sportivo, ragazzi che parlano tre lingue, professionisti capaci di attrarre sponsor e organizzare eventi internazionali, restano relegati al ruolo di stagisti cronici, perenni: “porta le cartelline, ma non pensare di portare idee”.
È un doppio standard ridicolo. All’atleta chiediamo di capire quando è ora di farsi da parte. Al dirigente no. Anzi: più invecchia e più diventa intoccabile.
Ma lo sport insegna una regola chiara: nessuno è eterno, nemmeno il più grande campione. Chi sa davvero di sport, quando arriva il momento, si ferma. Gli altri, invece, restano lì, pronti a disputare l’unica partita che non finisce mai: quella contro il tempo.
E così il nostro sport rischia di trasformarsi in un reality per immortali: decine di dirigenti che non hanno più gambe per correre ma poltrone da custodire.
Le medaglie ? Non si vincono, si archiviano… rigorosamente sugli scaffali.
L’ altro Giocatore