Julio Velasco, il filosofo
di STEFANO RAVAGLIA
Due Nations League consecutive, l’oro Olimpico contro gli Usa nl 2024, ora il Mondiale, che mancava dal 2002. Quell’anno a trionfare fu l’Italia di Bonitta, oggi quella di Velasco. Non è affar mio disquisire dei motivi tattici di Italia-Turchia, della fatica della semifinale col Brasile, della Orro donna simbolo del torneo. Bensì il mirino è puntato su di lui, Julio, il condottiero. Un mirino buono, si intende. Non un’arma ma una lente d’ingrandimento, l’ennesima, su un personaggio straordinario dello sport italiano. Se il Belpaese dovesse eleggere i migliori tecnici alla guida di nazionali vincenti, non ci sarebbero dubbi, come ha scritto nell’edizione de “la Stampa” del giorno dopo il trionfo mondiale Giulia Zonca: Rudic, Vittorio Pozzo e Julio Velasco. A Bearzot è legato il ricordo forse più iconico di sempre, il Mondiale del 1982, ma gli altri tre hanno scritto un’epoca. Velasco il Mondiale lo aveva già vinto nel 1990 con gli uomini, stavolta si è ripetuto ereditando una situazione che dire polverosa era dir poco. “Le ho solo aiutate”, ha detto dopo il 3-2 alla Turchia che ha tolto il tappo dallo spumante. Esattamente: ha riportato la normalità, l’unica cosa che doveva essere fatta in quello spogliatoio.
Se c’è un personaggio che rimpiango di non aver ancora intervistato è proprio lui. Non sono un esperto di volley, ma al di là di questa cosa di poco conto, non si può che restare ammirati quando si ascolta Velasco. Perché lui non è un tecnico o un personaggio sportivo, come la cronaca derubrica spesso freddamente: è un filosofo, ma badate bene, non di quelli che fanno una filosofia spicciola, bensì uno che trasmette il messaggio senza essere eccessivamente prolisso facendolo andare subito a bersaglio. Lo vidi da vicino solo una volta, una sera d’estate a Fusignano, paese di nascita di un altro grande, Arrigo Sacchi. “Non avete idea del culo che avete ad essere nati in Italia”, disse Velasco. Come non poteva rimanere in testa questa massima? Dietro c’era un significato ben preciso: vi lamentate del brodo grasso. Aveva ragione, ed è altamente probabile che non stesse parlando di sport.
Prima di tornare in panchina Velasco girava le aziende e le convention per spiegare cosa significa creare uno spogliatoio anche al di fuori dello sport. Questi incontri sono riassunti in un podcast, un prodotto uscito già qualche tempo fa, una fonte alla quale mi abbeverai senza rendermi conto del tempo che passava. Mi resta, anche in questo caso, in mente una frase tratta da quei discorsi motivazionali che teneva al pubblico: “Se sbagliamo e fanno punto gli altri, è passata. Basta. Inutile continuare a pensarci su. Altrimenti diventa che chi riceveva ha sbagliato il bagher, l’alzatrice ha sbagliato l’alzata e quella che ha schiacciato magari fuori o sulla rete è stata accecata dalla luce del riflettore del soffitto. Quando si fa un errore non conta più, bisogna passare oltre”. Tutto affascinante, ma a giudicare dalla nobiltà raggiunta dalla nazionale femminile di volley, il suo posto era ancora in panchina. Ad aiutare, non bastonare o comandare con la foga di chi vuol fare il dittatore della panchina perché così i tifosi sono contenti di vedere un mister incazzato, come se quella fosse l’unica idea valida di un allenatore.
Velasco preferisce la filosofia, la calma, il carisma, di cui è dotatissimo. Ed è proprio vero, nel suo caso, che più il tempo passa e più il vino è buono.
Credits: “Federazione Italiana Pallavolo”