Intervista a Giulia Daniela Bozzi, allenatrice di calcio:” La cultura supera il pregiudizio”
di MARTA MULE’
Quest’estate la nazionale femminile di calcio dell’Italia, capace di raggiungere le semifinali degli Europei, ha entusiasmato il Paese e ha riportato l’attenzione su un argomento spesso ignorato, sottovalutato o deriso, ovvero quello delle donne che ruotano attorno al mondo del calcio. Le atlete negli ultimi anni hanno lottato per avere più diritti e più tutele e, se nel loro caso sono stati fatti grandi passi avanti, la strada per le donne che vogliono allenare è ancora in salita. È il caso di Giulia Daniela Bozzi, che ci ha raccontato la sua storia per dimostrare che, nonostante i tanti anni di esperienza come allenatrice e nonostante i suoi investimenti nella formazione, le opportunità per le donne nel calcio restano ancora troppo poche e mai di alto livello.
Come nasce la sua passione per il calcio?
Non so da dove è nata. Mio padre non è mai stato un tifoso, a malapena guarda la nazionale. I miei zii hanno giocato, però mai ad alti livelli. Ce l’avevo nel sangue forse. In quinta elementare ho iniziato a giocare a calcio, una cosa fuori dal comune per l’epoca, ma i miei genitori non mi hanno mai detto di no per fortuna. Mi allenavo con i maschi perché non c’era il puro settore giovanile femminile e le bambine che giocavano a calcio erano pochissime. Poi ho giocato in serie C, in serie B e ho fatto qualche presenza in serie A. Ho dovuto smettere sia per gli infortuni, sia perché ho iniziato a lavorare, quindi il tempo era poco. Però il calcio non l’ho mai lasciato.
Quando ha pensato di iniziare ad allenare?
Subito dopo. Alla fine degli anni ‘90 ho messo su una società di calcio a Modugno, in provincia di Bari, di cui facevo la presidente e l’allenatrice e l’ho avuta per una quindicina di anni. La scuola calcio aveva 130-150 iscritti, tutti maschi. Era un bel movimento essendo una realtà di paese, poi, però, ho dovuto lasciare perché ho avuto un figlio e mi sono dovuta dedicare a lui.
E adesso?
Da 3-4 anni ho ricominciato ad allenare perché nel frattempo mio figlio è cresciuto e mi sono potuta concentrare con più costanza sul calcio. Nel frattempo ho preso diverse certificazioni: il Uefa C che è prettamente per il settore giovanile, poi la licenza D che è per i settori agonistici dilettanti e il Uefa B con cui potrei allenare fino alla serie C sia femminile che maschile. A giugno ho preso anche una nuova certificazione che sta proponendo la Figc come responsabile del settore giovanile. Io sarei l’unica donna nel centro sud che ad oggi ha quel tipo di qualifica.
Sulla carta, dunque, ha molti titoli. Nella pratica le sono serviti?
Sono certificazioni che valgono e si spendono anche non pochi soldi per ottenerle. Quando, però, vai nelle scuole calcio, succede che un ragazzo che magari ha giocato, ma che non ha i miei titoli, viene comunque preferito. La donna viene considerata solo per seguire i bambini di 4, 5, 6 anni. La figura femminile fa comodo perché si ritiene che sia più adatta a rapportarsi con i più piccoli e la utilizzano solo ed esclusivamente per queste fasce di età. Sono poche le donne che riescono ad avere una squadra under 16, under 17 o addirittura una squadra di promozione. È come se fosse una cosa fuori dalla logica perché c’è ancora l’idea che la donna sia meno capace a livello organizzativo e di preparazione. Non dico che è una battaglia persa, perché io ci combatto ogni giorno, però un po’ ci ho fatto l’abitudine.
Che squadra allena quest’anno?
Oggi alleno una società di calcio di Bari, si chiama Pro Calcio. Qui alleno bambini nati tra il 2015 e il 2021, quindi massimo di 10 anni. Potrei allenare pure una squadra di Serie C perché la mia
qualifica me lo permette, ma la realtà è che in Italia non c’è mai stata una donna su una panchina di Serie C e per i responsabili delle scuole calcio io posso fare al massimo l’attività di base. E già per seguire i bambini di 10 anni ho dovuto lottare.
Quale può essere la strada per cambiare questa mentalità?
È un problema culturale. Anche quando giocavo, 30-35 anni fa, ero bersaglio di pregiudizi perché a quei tempi erano pochissime le donne che giocavano a calcio e allora mi dicevano “maschiaccio” o facevano allusioni alla mia sessualità. I soliti luoghi comuni che ci sono anche oggi, ma prima erano ancora peggio. Da alcuni anni a questa parte si è fatta una grossa campagna per valorizzare il calcio femminile in Italia perché prima era ignorato, invece poi si sono accorti che esisteva. Dal punto di vista delle calciatrici, sicuramente la situazione è migliorata: adesso hanno il professionismo e strutture più all’avanguardia, invece dal punto di vista di tutte le altre figure c’è da crescere ancora.
Questo è un problema che riguarda non solo il calcio, ma tutto il mondo dello sport.
È vero, è proprio un lavoro di mentalità che bisogna fare su tutto il movimento sportivo. Devono rendersi conto che una donna, se qualificata, può allenare anche ad alti livelli. E invece quante allenatrici ci sono in tutti i club degli sport di squadra? Anche nella pallavolo, che è lo sport femminile per eccellenza, nessuna donna allena in serie A. I posti più importanti sono sempre dati agli uomini.
Ci sono state novità ultimamente?
Quest’anno sono stata contattata da una squadra di serie C femminile, ma mi hanno detto che a livello tecnico non era disponibile nessuna posizione. Ho detto: “E allora che cosa dovrei fare?”. “Il dirigente accompagnatore”. Questo è il massimo che potevano offrirmi. Un ruolo che può essere ricoperto anche da chi non ha nessuno dei miei titoli. Peggio ancora se parliamo di società maschili, dove mi hanno risposto: “Le donne non ci sono mai state”, chiudendo così qualunque spiraglio. Io non chiedo di essere il primo allenatore, ma almeno collaboratore tecnico, secondo allenatore. Per loro non sono in grado, ma io non mi fermo neanche se trovo le porte chiuse.
Guardando al futuro si sente più rassegnata o più fiduciosa?
Io resto fiduciosa perché per me la speranza è l’ultima a morire. Sto cercando anche all’estero perché magari lì la situazione è un po’ diversa e ci sono più possibilità. In Italia in tutta la Figc ci sono pochissime donne, anche per quanto riguarda i ruoli da dirigente. È un mondo completamente maschile e finché non ci sarà la volontà di cambiare le cose da parte di chi in questo momento ha le posizioni di potere, tu puoi lottare, puoi mettere in evidenza il problema, però non cambierà niente.