Calcio e Tennis italiano, il confronto impari tra due “modelli” contrapposti
di FRANCESCO MAFERA
L’Italia sportiva vive oggi un curioso paradosso: mentre il calcio, disciplina nazionale per eccellenza, attraversa una fase di profonda crisi strutturale culminata nei recenti insuccessi della Nazionale, il tennis sta conoscendo una stagione di entusiasmo e risultati senza precedenti. L’ascesa di Jannik Sinner nel circuito ATP non rappresenta solo il trionfo di un singolo atleta, ma l’emblema di un sistema che funziona, una filiera che ha saputo trasformarsi in laboratorio permanente di crescita, merito di investimenti, visione e progettualità.
Contraltare ad un movimento, quello calcistico, che invece continua inesorabilmente ad inabissarsi.
E mentre laddove si dovrebbe fare squadra, non vi si riesce, è proprio nel contesto nel quale è il singolo a doversela vedere da solo, che emerge il valore del team. In un ambito che funziona e che aiuta ad elevare determinati standard. Un paradosso che racconta molto del fallimento di una dimensione e del successo dell’altra.
I numeri che non mentono mai
Il confronto tra i due movimenti non è solo sportivo, ma culturale. Lo dicono anche certi numeri, che costituiscono la cartina tornasole di due situazioni agli antipodi: da un lato impietosa e dall’altro idilliaca, nel suo essere croce e delizia di una delle più consistenti porzioni dello sport nostrano anche a livello di seguito e di impatto sociale.
“Viva El Futbol”, direbbe qualcuno. Ma ormai anche fino ad un certo punto, risponderemmo noi.
Il calcio italiano è oramai frenato da una struttura rigida, spesso imbrigliata in logiche conservatrici. C’è quel numero 900 che campeggia inerme e che sotto una coltre di polvere e complice indifferenza, suona come una condanna, riportandoci alla memoria la storia delle pagine di riforme proposte da Roberto Baggio, lasciate nei cassetti della FIGC. Un treno lasciato andare come tanti altri nel nostro paese mostrando ancora una volta il lato peggiore dell’Italia in quel tipico atteggiamento sintomatico di un modus operandi che sa di mancanza di volontà, di idee e perfino puzza di clientelismo, diventando simbolo di un sistema che fatica ad ascoltare, a cambiare, a immaginare un futuro diverso. In quei maldestri e pacchiani tentativi di rianimarsi, che ovviamente non possono funzionare: tra fiumi di parole al vento per istituzionali discorsi di circostanza, analisi sconfessate, atteggiamenti posticci e commenti incoerenti e irritanti che spesso ascoltiamo sulla rete nazional popolare durante le partite di qualificazione degli azzurri.
Dall’altro lato c’è invece il tennis, che negli ultimi quindici anni ha saputo accendere e riscaldare il cuore degli italiani arrivando a toccare vette inesplorate come quelle dei 7 milioni di spettatori e uno share in costante crescita. Si è ristrutturato, puntando su centri tecnici moderni, preparatori all’avanguardia, sull’internazionalizzazione dei metodi e una gestione del talento non basata sull’intuizione del singolo o sul protagonismo di coach emulatori e improvvisati, ma su una rete coerente di competenze.
Il successo del tennis è diventato evidente non solo nei risultati, ma anche nella risposta del pubblico. Le ATP Finals e le grandi partite di Sinner hanno registrato cifre che, fino a pochi anni fa, sarebbero sembrate impensabili e che narrano di un cambiamento profondo nelle abitudini sportive degli italiani. Lo spettatore non cerca più soltanto il rito settimanale, ma un prodotto di qualità, uno spettacolo credibile, un percorso limpido e meritocratico.
Il tennis italiano, oggi, vive una stagione aurea non per caso, ma perché si è dato gli strumenti per crescere: pianificazione, strutture, competenza. La crescita non è stata immediata, né favorita da un sistema ricco come quello calcistico; è stata programmata, costruita, perseguita con pragmatismo e visione. È questo, probabilmente, l’insegnamento più grande che il calcio dovrebbe raccogliere.
Uno sport che continua infatti a vivere di una popolarità che spesso lo esonera dal cambiamento, quasi come se avvertisse su di se il privilegio incondizionato di un credito senza termine confertogli dal suo successo, ma che sempre di meno sta facendo scoccare la scintilla nell’animo degli sportivi italiani per le sue incongruenze e contraddizioni.
L’insuccesso sportivo degli ultimi anni sta incrinando questa impunità culturale. Le nuove generazioni, abituate a scegliere liberamente quali sport seguire e quali atleti idolatrare, mostrano un’attenzione crescente per discipline capaci di offrire un modello riconoscibile di serietà, progresso e risultati. Il tennis ha saputo farsi trovare pronto: ha offerto un prodotto fresco, moderno, internazionale, competitivo, comprensibile anche ai non addetti ai lavori. E il pubblico ha risposto.
Il paragone con il calcio, dunque, non serve a creare gerarchie, ma a stimolare una riflessione più ampia. Se il movimento calcistico vuole tornare davvero centrale nel panorama internazionale, deve ripensarsi dalle fondamenta: formazione, governance, metodo, ascolto delle competenze. L’esempio di Baggio e delle sue proposte ignorate dovrebbe essere non un episodio isolato, ma un monito. L’Italia calcistica non ha bisogno di un altro talento salvifico, ma di un progetto. E, per usare una citazione di Will McAvoy, protagonista nella serie americana “The Newsroom”: “per risolvere un problema bisogna riconoscere che ce n’è uno”.
Il tennis italiano ha dimostrato che un modello diverso è possibile e che, quando visione e progettualità si intrecciano, i risultati arrivano. Ora tocca al calcio decidere se continuare a vivere di rendita o se trasformarsi, abbracciando il futuro con lo stesso coraggio con cui Sinner affronta ogni match: col sorriso, ma anche con un metodo alle spalle.
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