Francesco Messori, simbolo del calcio amputati in Italia: ” Ci ho messo la faccia con Facebook per avere attenzione”
di FRANCESCO MAFERA
C’è un calcio che non si gioca per soldi o per fama. Un calcio che nasce dal bisogno di appartenenza, dalla voglia di sentirsi parte di qualcosa, di rimettere piede in campo quando tutto intorno sembra dire il contrario. Un calcio che non solo abbatte le difficoltà, fa anche di piú: le trasforma. Tanto che se ci deve essere qualcuno a dover rimpiangere qualcosa è chi determinate esperienze non le ha mai vissute, perchè vorrebbe provare una forza che nasce da dentro e che cresce giorno dopo giorno. Quella di chi ha imparato a prendere il buono da ogni cosa e rendere tutto più bello. Stiamo parlando del calcio amputati. Una realtà a sostegno della quale, lo stiamo vedendo in questi mesi, sta intervenendo anche il mondo di Insuperabili, per condurre ad una crescita del movimento che sia la più strutturata possibile.
Per continuare a crescere servono investimenti, spazi adeguati, attrezzature, supporto medico e visibilità. Servono stampelle specifiche, kit medici, tape, materiali per scendere in campo in sicurezza. Servono raduni, tornei, occasioni per far incontrare i ragazzi, formare nuove leve, costruire un futuro.
E per far capire davvero cosa rappresenti questo sport, a livello umano prima ancora che atletico, basta ascoltare la storia di chi è stato precursore di certe iniziative, gettando nuove basi culturali per tutto questo.
Francesco Messori, uno dei simboli del calcio amputati in Italia, è stato tra i primi a credere che “giocare” potesse non avere nulla a che fare con la presenza di due gambe. Classe 1998, nato a Bologna, cresciuto a Correggio, oggi gioca nel Vicenza dopo un lungo percorso fatto di grande impegno e abnegazione. Diversi anni fa costruisce il suo sogno: parte da un post su Facebook e da quel momento gli si apre un mondo. Esempio di dedizione e lungimiranza, Francesco mostra una forza caratteriale tale da portarlo a fondare e capitanare cosi giovane una Nazionale Italiana di Calcio Amputati. Qualità che non possono di certo passare inosservate e che insieme alla curiosità di ripercorrere la sua storia, ci hanno portato a decidere di intervistarlo.
Francesco ben trovato. Vorrei subito partire dall’inizio: da che cosa è scaturita la tua passione per il calcio, per farla diventare così tanto conciliabile con la tua condizione?
“Beh, questa è una domanda che mi fanno spesso. Io credo che qualsiasi passione, in parte ti venga trasmessa ma per il resto sia qualcosa di innato. E penso che questo sia il mio caso.
Quando ero nel pancione della mamma, tiravo calci (ride, ndr.). E infatti lei credeva che sarei diventato calciatore, ripercorrendo le sue orme, quelle di quando era più giovane. Lei sosteneva questo fino a poco prima di scoprire che io poi sarei nato senza una gamba. Ma la realtà ha in effetti poi dimostrato che questa sua aspettativa era comunque fondata. La mia è una passione che ho sempre coltivato fin da piccolo e mia mamma dice sempre che quando c’era un pallone in tv, io stavo sempre li a guardarlo”.
Ripercorrendo poi in ordine cronologico la tua storia: a 14 anni fai qualcosa di inaspettato: crei un gruppo Facebook per cercare altri ragazzi come te. Cosa ti ha spinto a farlo?
“Si, a 14 anni creo un gruppo Facebook. Ma prima di questo accade altro. Un passaggio fondamentale che ci terrei a sottolineare: il Centro Sportivo Italiano nel Febbraio del 2012 mi tessera ufficialmente cosicchè io potessi giocare a livello ufficiale con i normodotati. Da li sicuramente, a livello mediatico ho ricevuto un’attenzione particolare poiché questa è stata una scelta importante da parte del CSI. Mi sono quindi portato dietro il desiderio di formare qualcosa di più grande perché ancora non mi divertivo abbastanza a giocare con i normodotati: sentivo che avevo bisogno di compagni di squadra che vivessero la mia stessa condizione. Ho provato quindi a documentarmi su Internet con mia mamma che è la più sportiva dei miei genitori, quella che mi ha accompagnato maggiormente in questo percorso.
Mio papà è sempre stato al di là dei riflettori anche se pure la sua è stata una figura fondamentale per quanto riguarda l’equilibrio dietro le quinte affinchè tutto rimanesse in armonia tra l’interno e l’esterno.
Mia mamma però è quella che ci ha messo di più la faccia. Insieme a lei, quando si è capito che non esisteva nessuna squadra in Italia, grazie a Facebook, abbiamo creato un gruppo chiamato “Calcio Amputati Italia” nel quale abbiamo pubblicato il post dove esprimevo il mio desiderio: quello di trovare altri ragazzi amputati in giro per l’Italia che avessero la passione per il calcio da condividere in campo insieme a me. Da quel momento in poi, sempre grazie al grande lavoro che ha fatto il CSI che comunque ha continuato a sostenermi, siamo riusciti a dare vita a questa squadra che è la Nazionale Italiana di Calcio Amputati nel Dicembre del 2012. Quindi ormai stiamo per compiere 13 anni”.
Poi siete arrivati ai Mondiali e agli Europei. Cosa significano per te quei momenti?
“Dopo varie amichevoli e tanti allenamenti insieme, siamo arrivati al primo Mondiale in Messico nel 2014 che era ancora su invito, dato che non c’erano ancora sufficienti squadre per poterlo fare a qualificazione. Poi nel 2017 Instanbul, nel 2018 secondo Mondiale sempre in Messico, altri Europei nel 2021 in Polonia e infine siamo tornati a Istambul per gli ultimi Mondiali in ordine di tempo nel 2022. L’anno prossimo, invece, saremo in Costa Rica: dal 31 luglio al 9 agosto. Sarà sicuramente la tappa che ci dirà davvero molte cose. Perché per molti di noi significherà arrivarci nell’età della piena maturità calcistica. Lo prepareremo al meglio delle nostre possibilità. Sicuramente queste competizioni sono un modo per mettere in campo tutti i sacrifici che ognuno di noi porta avanti nel suo piccolo, in una maniera talmente forte e grande che non si può spiegare. Noi non siamo professionisti come quelli di altre realtà e quindi, anche per trovarci, facciamo il possibile. Ci troviamo poco e quindi stiamo lavorando per provare a vederci più spesso e far si che magari ognuno, nel proprio paese, possa organizzare un raduno per riuscire a vederci almeno una volta al mese. Anche grazie, per quanto possibile, al sostegno della FISPES, ovvero la Federazione che ci ha accolto ormai quasi 10 anni fa, dopo che il CSi ha portato avanti il percorso con noi nel primo periodo di avviamento in cui ha fatto un lavoro straordinario.
Questi eventi rappresentano poi soprattutto la possibilità di esprimere le proprie capacità e di conseguenza puntare, a livello agonistico, ad un risultato consono a quelli che sono stati i nostri sacrifici. Sappiamo benissimo che non è sempre facile visto anche il livello degli avversari: ci sono sempre squadre più forti di te, chi è più preparato di te, ma sicuramente, già il fatto di andare li e dare il massimo, è motivo di grande orgoglio”.
Sappiamo bene che ti ispiri a Messi: del resto lui ha dimostrato che le partite, anche quelle più difficili, quando ci sono talento, passione e determinazione, si risolvono solo col mancino. E, come se non bastasse, ad incantare il mondo con quella gamba è stato Maradona a Messico 86…
“Si, mi ispiro a Messi per quanto mi è possibile, anche se sono molto lontano dal poter emulare il suo comportamento tecnico e tattico in campo. È il mio idolo calcistico fin da quando ero piccolo. Mi sono appassionato al Barcellona e di conseguenza lui per me è sempre stato un modello. Lo è perché ha sempre dimostrato, nonostante il suo altissimo livello calcistico, una grande umiltà: nel suo essere costantemente a servizio della squadra, nel mettersi a disposizione nei momenti di difficoltà, nel crederci sempre, anche quando arrivavano per lui delle sconfitte pesanti nei momenti critici e decisivi della sua carriera. Non ha mai mollato: lo ha dimostrato anche con la vittoria del Campionato del Mondo con la maglia dell’albiceleste, dopo aver subìto la beffa in finale nel 2014 e poi anche nel 2018 quando si pensava che potesse essere il suo ultimo mondiale. Invece poi, in Qatar, ha coronato la sua carriera con questo gioiello della Coppa del Mondo che toglie qualsiasi tipo di discussione su ciò che poteva esserci fino a quel momento tra lui e Maradona. A me, comunque, non piace creare questi dibattiti perché ognuno è campione a modo suo. Anche quelli che paragonano i nuovi giovani a campioni come Messi o Ronaldo, sbagliano: perché, oltre al fatto che nessuno di questi arriverà al loro livello, c’è da dire che ogni campione è in grado di coltivare, se lo vuole e se ha la testa, i propri talenti e donare ai propri compagni, alla squadra e ai tifosi le proprie capacità con grande dedizione e unicità. È quello che lo porta a diventare campione ed è questo ciò che fa la differenza. Ognuno deve
poter offrire ciò che gli è stato donato, al massimo delle proprie possibilità. Si deve dimostrare di saper vincere, ma non credo che questo sia ciò che un calciatore debba imparare a fare del gioco”.
Qual è il momento che hai più a cuore nella tua carriera di atleta e l’aneddoto da cui trai più ispirazione anche per offrire consigli preziosi ad altri ragazzi?
“Questa è una bella domanda. È chiaro che ogni volta che guardo in faccia i miei compagni di squadra prima di ogni gara, quando ci riuniamo a cerchio prima di ogni partita con la Nazionale, vedo volti che hanno vissuto sofferenze nella vita ma che condividono il campo e la propria passione con gioia. L’aspetto più bello di questo sport e di qualsiasi altro sport di squadra che posso trasmettere ad altri ragazzi riguarda il fatto che, quando tu ti guardi a fianco, hai sempre un compagno sul quale poter contare. E che anche tu sei quel compagno al quale gli altri possono affidarsi. Una persona che si prenda le sue responsabilità a servizio della squadra, sempre nell’ottica dell’armonia di gruppo. Mai per demolire lo spirito di squadra, ma sempre per costruire una comunione sana e che possa portare ad un risultato umano prima di tutto e necessario per poter costruire anche quello sportivo. La cosa che però tengo più di tutte a dire ai ragazzi è che ognuno di noi nella vita deve vivere momenti tristi, momenti di sofferenza. Io ricordo sempre di non dimenticarci mai delle persone che abbiamo accanto e che ciò che più conta nella vita, quello in cui credo, per mia esperienza personale è il fatto di venire ricordati per la capacità che abbiamo di amare. Chi abbiamo di fianco e chi incontriamo.
Se dico questo è perché io per primo sono stato amato. Di un amore grande e che tengo a condividere con chi ascolta la mia storia. Un amore che viene dall’alto e che mi ha fatto sentire un figlio amato. Che si incarna negli sguardi delle persone che mi circondano. Quello sguardo che deve essere prima di tutto il mio per gli altri. E quando mi chiedono quale è il mio obiettivo nella vita, non mi concentro tanto sull’ambito sportivo quanto su quello umano, dicendo che il mio più grande scopo rimane, nel mio piccolo, nella mia incompletezza, nella mia povertà e debolezza di uomo, quello di cercare di amare come sono stato amato io. MI sento di dire questo ai ragazzi perché se noi lo pensiamo, arriveranno grandi soddisfazioni da ogni parte. Anche in ambito sportivo poiché questo discorso si manifesta in ogni ambito”.
Una riflessione da parte tua sul calcio paralimpico: a che punto della sua crescita è secondo te il movimento nel suo complesso e quali devono essere le politiche di sostegno adeguate laddove magari ancora non si riscontrano?
“Noi non siamo ancora alle paralimpiadi come Calcio Amputati. Chiaramente speriamo che questa disciplina possa essere inserita al più presto. Credo che si stia facendo di tutto affinchè questo avvenga. Non so che cosa ancora non permetta tutto ciò. Io penso che in molte parti del mondo non ci siano le strutture adatte per poter entrare a far parte della realtà paralimpica a livello mondiale. Siamo comunque in attesa di sviluppi. Detto ciò, noi non per questo ci fermeremo. Anche perché continueremo ad allenarci e a sacrificarci individualmente e a livello di squadra, nel limite del possibile, per poi un giorno eventualmente arrivare pronti a questo evento che comunque necessiterà di una qualificazione. Tra l’altro noi, all’ultimo mondiale a Istanbul siamo arrivati ottavi, uscendo ai quarti di finale. Per cui potremmo essere tra le migliori otto. E noi ai prossimi mondiali vogliamo confermarci in quel range di piazzamento. Sarà un banco di prova davvero tosto, ma cercheremo di portare avanti quello che già stiamo facendo”.