“Mica perchè è mio figlio”: Fabio Eleuteri ed il libro guida per i genitori dei giovani calciatori
di FRANCESCO MAFERA
La cultura della sensibilizzazione nel mondo dello sport che sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni anche nel nostro paese, ha adesso un nuovo capitolo che proviene dal contesto della Capitale, grazie ad un volume denso di significato e che invita ad una riflessione seria ed approfondita sul tema.
“Mica perché è mio figlio” è il titolo di questo libro scritto da Fabio Eleuteri, psicologo formatore e consulente dello Sport. Un contributo tangibile e nato per affrontare le problematiche del calcio giovanile, con uno sguardo critico sulle pressioni che gli adulti, spesso anche inconsapevolmente, esercitano sui bambini. Il titolo stesso, tratto da una frase ricorrente tra i genitori a bordo campo, mette in luce il bisogno di distinguere il piacere e la crescita spontanea dei più piccoli dalle ambizioni personali degli adulti. Il volume edito da MTS Edizioni, ha ottenuto un importante riconoscimento internazionale, partecipando alla Fiera del Libro di Francoforte, uno dei principali eventi editoriali a livello mondiale ed è stato presentato dall’autore martedi 14 ottobre in Campidoglio. Un momento in cui è stato riscosso un alto livello di gradimento presso il pubblico presente in sala e che ha stimolato tanti spunti di riflessione.
Nel libro, Eleuteri esplora con sensibilità i sogni dei bambini, i loro percorsi educativi e sportivi, e le dinamiche che emergono nei contesti quotidiani come oratori, campetti di quartiere e scuole calcio in un modo fatto appositamente per offrire una riflessione profonda sul rapporto tra la passione per lo sport e gli aspetti psicologici ed educativi che lo influenzano.
Un viaggio nel calcio dei bambini, ma anche nel cuore dei genitori e dove “dentro ci sono sogni, errori, verità e tanto amore per questo gioco che non sarà mai solo un gioco” come dichiarato dal suo stesso autore.
Temi centrali dell’opera sono la crescita individuale, il rispetto, la libertà di esprimersi, la psicologia dello sport e, soprattutto, la tutela dei sogni dei bambini, troppo spesso offuscati da aspettative adulte fuori misura. Una serie di problematiche che abbiamo sviscerato anche in un’intervista con il diretto interessato
Fabio ben trovato.
Il titolo del suo libro, “Mica perché è mio figlio”, è una frase che suona familiare a chiunque abbia frequentato i campi sportivi. Perché ha deciso di usarla come titolo e cosa racchiude per lei?
“È un messaggio importante che è emerso anche ieri quando abbiamo fatto la presentazione in Campidoglio. Non potevamo che affrontare questo discorso che ritengo essere il cappello introduttivo ideale per questo titolo il quale racchiude una frase che oramai è utilizzata cosi tante volte da far sorridere. Proprio ieri raccontavo di un mio allenatore di Pienza che si chiamava Bruno Pinna (ndr), che mi diceva sempre ‘quando un genitore si avvicina a te e inizia il discorso pronunciando la frase ‘non perchè è mio figlio’, tu scappa a 200 km di distanza perchè il finale già lo conosciamo’.
Fa sorridere quando una persona viene da te e ti dice ‘ha scartato 3 avversari, è corso sulla fascia, ma al doppio degli altri. Non lo dico perchè è mio figlio, ma è un fenomeno’. Questa è la frase più conclamata che negli ultimi anni abbiamo ascoltato quando dovevamo parlare con un genitore che veniva a rapportarsi con noi per la stagione agonistica. Quindi questa è una frase che fa capire un po’ anche quella che è la proiezione del libro, insomma”.
Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a scrivere questo libro? C’è un episodio o un vissuto personale che ha fatto emergere l’urgenza di affrontare questi temi?
“Due sono le grandi verità: la prima è quella legata al mio esame di Stato in psicologia dopo aver fatto 750 ore di tirocinio. In quel momento il Professore della Sapienza mi chiede ‘Fabio ma tu hai una bibliografia del tuo vissuto? Conosci uno psicologo dello sport? Hai dei riferimenti bibliografici in questo settore? Hai mai scritto un libro? Al che io rispondo di no. E lui mi dice: ‘noi avremmo necessità anche come università di alcuni testi di questo genere’. Da li nasce l’idea. E allora dalla settimana successiva inizio a buttare giu il mio primo capitolo. La mattina seguente lo leggo a mia moglie che si commuove. Ecco, quella è stata la scintilla che ha fatto scattare in me la voglia di tornare in fretta a casa ogni sera per mettermi a scrivere un nuovo capitolo.
In seconda analisi, questa mia aspirazione deriva dal fatto di voler ripercorrere centinaia di riunioni che facciamo ogni anno con i genitori dei ragazzi iscritti alle scuole calcio e nella quali più o meno si ricalcano gli stessi argomenti, le stesse tematiche e le stesse preoccupazioni. Si, siamo preoccupati perchè siamo in un mondo nel quale non si lascia troppo spazio ai nostri figli ma si predilige il proprio ego personale, forte anche di fronte alle loro esigenze. Quasi da impedirgli di parlare ed esprimersi. Questo secondo me tarpa le ali ai nostri ragazzi e non offre loro una possibilità di crescita reale come quella che abbiamo avuto tutti noi delle generazioni precedenti”.
Nel libro parla delle pressioni che gli adulti esercitano sui bambini nello sport. In che modo queste influenzano il loro sviluppo emotivo e la loro passione per l’attività sportiva? Quali errori commettono più spesso i genitori, magari anche in buona fede, nel seguire i propri figli nel percorso sportivo?
“Le proiezioni del proprio io sui propri figli fanno si che in qualche modo emerga un po’ piú il genitore rispetto al ragazzo. Il figlio quasi diventa un pretesto per fare una metabolizzazione dell’io in primo piano. Ciò che cosa significa? Significa che ciò nel quale non sono riuscito io, lo ripropongo nelle vesti di mio figlio. Inoltre siamo figli di un epoca in cui i genitori lavorano entrambi ed entrambi sono preoccupati del tempo che dedicano ai propri figli. Quasi sempre si affacciano all’idea di questo tipo di rapporto familiare con un senso di colpa infinito perchè magari hanno poco tempo per stare con loro. Oppure capita che marito e moglie si accusino a vicenda. E quindi succede che il genitore, pur di compensare questo senso di inadeguatezza, più o meno inconsapevolmente, immetta dentro tutto quello che, dal suo punto di vista potrebbe mancare alla prole. Si rende conto di piccoli particolari che i figli magari neppure notano. Ad esempio, c’è chi dice: ‘il mio ragazzo ha giocato 7” in meno del suo compagno’.
È da qui che nasce il bisogno di proteggerlo, andando a compensare ciò in cui probabilmente si ha una mancanza personale, senza capire che quel comportamento, in realtà, sta nuocendo al figlio”.
Allora, a questo punto, dopo quello dei genitori, a quale ruolo dovrebbero assurgere invece allenatori e società sportive nel tutelare i giovani atleti cosi da creare un ambiente sano e formativo?
“Io credo fermamente che il calcio, il mondo dello sport in generale e il rispetto delle regole, siano gli ultimi baluardi educativi che hanno i ragazzi. Se parliamo di calcio, è importante capire che al professionismo, soprattutto secondo le ultime statistiche, ci arriva un bambino almeno ogni 30mila. I responsabili delle società devono avere perciò come compito principale quello di far crescere degli uomini migliori e delle donne migliori, perchè loro saranno gli uomini o le donne del domani. Il concetto delle regole, del rispetto, dell’ educazione, di tutto quello che è il sacrificio, del rapporto tra studio e lavoro in una epoca in cui non c’è più neppure la leva militare obbligatoria, fa si che questi siano principi importanti da conservare. Oggi si rimproverano oltremodo gli educatori e gli insegnanti solo perché svolgono il loro lavoro. Un atteggiamento che un tempo, da genitori, non ci saremmo mai sognati di fare. La contestazione indiscriminata dell’autorità sta destrutturando un po’ il concetto di rispetto che invece grazie al calcio può essere un freno a certi fenomeni ed una integrazione perfetta al sistema educativo, col pretesto che molti ragazzi vogliono praticarlo. Allora noi dobbiamo approfittare di questo facendoci trovare pronti nel nostro ruolo di educatori, prima ancora di insegnare come eseguire il tiro, oppure lo stop, il movimento, la scalata o altre amenitá che secondo me arrivano come seconde, terze e quarte nella classifica delle priorità”.
Dopo la presentazione in Campidoglio, quali speranze ha dunque per il futuro? Cosa si augura che cambi, concretamente, grazie anche a questo libro?
“Io parlavo giusto ieri di ‘legge di prossimità’: nel senso che ognuno di noi ha un ruolo importantissimo all’interno dei nostri 50-60 cm. Ha la possibilità di cambiare le cose. C’è un detto africano che recita: ‘l’elefante va mangiato un pezzo alla volta’ e ciò sta a significare che un cambio culturale non può essere qualcosa di repentino che accade dall’oggi al domani. Va gradualmente cambiato un sistema di cose, un modo di pensare. Se ognuno di noi facesse una piccola cosa ogni giorno, nel proprio microcosmo, probabilmente riuscirebbe a dare un impulso per quel cambio culturale di cui io sento una fortissima necessità”.