Alfonsina Strada: la pioniera del ciclismo femminile italiano
di ANTONELLA STELITANO
Alfonsina non è una donna straordinaria. Tutt’altro. E’ una donna ordinaria, una donna del suo tempo: destinata ad essere moglie e madre, a esercitare un lavoro umile magari al servizio di qualche famiglia, a stare zitta, ad adeguarsi a regole e costumi che non prevedevano per le donne parole come carriera, emancipazione, voto.
Alfonsina non è bellissima, non è ricca, anzi è decisamente povera e, peggio ancora, è coraggiosa. Come avrebbe potuto altrimenti sollevarsi dalla polvere e dalla palude di quella frazione di Riolo Emilia il cui nome, Fossamarcia, non lasciava intendere niente di bello?
Lo squarcio di luce che entra nella sua vita quando è poco più di una bambina si muove su due ruote. E’ una bicicletta o meglio un vecchio rottame di bici. Ma per chi non possiede nulla quella bici è sogno e libertà allo stesso tempo e il polverone che alza sulle stradine del paese e delle campagne vicine scuote e scandalizza.
In molti la insultano, la osteggiano, la sbeffeggiano e la deridono. Matta, stravagante, indecente, diavolo in gonnella. Sono solo alcuni dei nomignoli con i quali i conterranei la indicano.
Una donna deve stare a casa. Cosa ci fa in giro da sola su una bici?
In un periodo storico in cui per le donne non era nemmeno immaginabile fare sport, il ciclismo ahimè, era il diavolo. Quando vai in bicicletta infatti non lo fai al chiuso di una palestra, dove pochi possono vederti. Lo fai all’aperto, sulle strade. Tutti ti vedono. E il polverone che alzi è molto più di quello che sollevi. E’ una sfida. Una provocazione. Una rivoluzione. E’ un attentato a un ordine sociale prestabilito, in cui le donne erano destinate a ricoprire un ruolo sociale che non permetteva deviazioni, il cui addestramento passava attraverso una serie di attività che non contemplavano andare in bicicletta.
Gli ostacoli che Alfonsina ha dovuto superare erano tanti, tantissimi ed erano li per scoraggiare qualsiasi ragazza ad avvicinarsi a auna bici.
Vi erano obiezioni mediche, giacché si riteneva (e fior fior di congressi medici lo certificavano) che la bicicletta nuocesse gravemente alla salute: deformità del piede, tachicardie, insani cali di peso, problemi agli occhi causati dalla polvere, lo schiacciamento di vene che causava ridotta ossigenazione del cervello, addirittura il pericolo di perdere la possibilità di procreare.
Obiezioni relative all’abbigliamento, perché la bicicletta imponeva alla donna di togliersi gonnelloni e bustini per vestire un abito più razionale, che spingeva pericolosamente verso l’uso dei pantaloni.
Obiezioni morali, perché era indecente che una ragazza osasse frequentare un ambiente all’epoca maschile, poggiando le terga su una sella che poteva provocare pericolosi sfregamenti, tanto da indurre a brevettare un sellino apposito per le signore, con un bel buco in centro.
E poi, cosa poteva accadere in caso di cadute? Chi mai poteva sorreggere una ciclista? Forse un uomo? Uno qualsiasi?
E con questa bicicletta dove mai poteva voler andare da sola una donna? Quale pericoloso spiraglio di libertà di movimento preannunciava questo nuovo mezzo?
Insomma, che donna è quella che può ambire a praticare un’attività tanto sconveniente?
Con questo fardello da portare, la vita delle prime pioniere del ciclismo italiano non fu affatto facile.
Alfonsina è una di loro ma il fuoco che ha dentro è quello di una passione difficile da spiegare. Così deve andare via, trasferirsi al Nord. In una grande città, dove la mentalità è più aperta. Poco più aperta, ma aperta quanto basta perché ci sia qualche gara, perché Alfonsina possa raggranellare qualcosa che aggiunge alle sue entrate di sarta.
Un premio magari in cibarie o qualche lira, per mantenersi e per aiutare la famiglia.
Avevo bisogno di lavorare, dirà anni dopo aver lasciato le corse, dovevo mantenere una nipote in collegio, un marito finito al manicomio. Cosa avrei dovuto fare?
Il ciclismo, che è la sua passione di ragazzina, diventa il suo strumento di libertà. Libertà di iniziare una nuova vita e di guadagnare dei soldi, prima con le corse e poi con gli spettacoli e le acrobazie su due ruote. Non si arricchirà mai, ma a modo suo fu una professionista del ciclismo, supportata dai due uomini della sua vita: Luigi Strada e Carlo Messori.
La svolta avviene nel 1924, quando una serie di fortunate circostanze, che mai più si verificarono, le permettono di partecipare al Giro d’Italia maschile: mai a una donna venne concesso prima, mai a nessuna donna fu permesso dopo.
Partita come Alfonsina, la Strada tappa dopo tappa vede accrescere la sua popolarità. Una donna non si era mai vista. Tutti l’aspettano. Fanno il tifo per lei. Le portano dei regali. Anche il re d’Italia.
A tre quarti di un Giro sempre più rocambolesco per lei, avrebbe dovuto uscire di scena. Arrivata fuori tempo massimo. Ma non si può. E’ troppo popolare. La gente la acclama. La vuole vedere. Potrà proseguire, ma fuori classifica.
Partono in 90. Arrivano al traguardo in 30. Alfonsina dopo di loro. E’ la numero 31 all’arrivo perché 60 uomini si ritirano. Lei no. Lei arriva fino in fondo.
Alfonsina non era certo l’unica ciclista di quel periodo. Adelina Vigo, Antonietta Gilardino, Maria Milano, Lina Cavalieri, Giuseppina Carignano, Bruna Bonetti, Lucia Borsetti, Maria Valsecchi, Angela Gremo: sono solo alcune delle pioniere di inizio secolo scorso. Di loro però a stento qualcuno si ricordano i nomi perchè, a differenza di Alfonsina, non hanno partecipato a una corsa maschile importante e, di conseguenza, i giornali non hanno parlato di loro. E in assenza di altre fonti, i loro nomi svaniscono come polvere al passaggio della storia.
Ignorate equivale a mai esistite.
Per questo Alfonsina è il nome di tutte le pioniere del ciclismo femminile italiano.
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