“Il quarto posto? Una tappa nel percorso di autoconsapevolezza”, parola del mental coach Marco Valerio Ricci
di FRANCESCO MAFERA
Arrivare quarti in una competizione è una delle situazioni più ambivalenti nello sport. Da un lato, significa essere tra i migliori, dall’altro lascia un senso di incompiutezza, quasi di amaro in bocca per essere rimasti a un passo dal podio. Come si gestisce psicologicamente questa posizione? Come si può trasformare la delusione in un trampolino di rilancio? Ne abbiamo parlato con Marco Valerio Ricci, mental coach di alto livello, ex della Nazionale di rugby e professionista che ha lavorato con atleti di spicco, tra cui Niccolò Pisilli, giovane talento della Roma. Con lui abbiamo analizzato la questione affrontando il tema della gestione emotiva del quarto posto, tra resilienza, motivazione e crescita personale, in un intervista tanto approfondita, quanto interessante.
Partiamo dall’idea di quarto posto dal punto di vista psicologico: traguardo o delusione? Come si affronta mentalmente un risultato che può essere visto sia come un successo che come una sconfitta?
“Grazie a voi per l’invito, è un piacere. Il quarto posto è una di quelle posizioni che ti mettono davvero alla prova, soprattutto dal punto di vista mentale. Non è un traguardo se si compete ad alti livelli, perché chi sale su un campo, una pedana, una pista, lo fa per vincere, non per arrivare quarto. Ma attenzione: non è neanche una sconfitta. È una tappa. E come ogni tappa, ha un valore se sai leggerla nel percorso più ampio della tua crescita come atleta e come persona. Spesso ci si lascia travolgere dal giudizio esterno, dal confronto con gli altri, dai titoli dei giornali. Ma il punto è proprio questo: devi spostare il focus. Guardarti dentro. Agli atleti che alleno mentalmente pongo una serie di domande per portarli a una maggiore consapevolezza, come ad esempio:
– Sei migliorato rispetto a ieri?
– Hai dato tutto quello che avevi dentro?
– Hai tenuto fede ai tuoi valori?
Perché se la risposta è sì, allora non hai perso nulla. Il lavoro dell’atleta non è rincorrere le aspettative, né le proprie né quelle degli altri, ma coltivare una disciplina quotidiana fatta di impegno, sacrificio, cadute e risalite. Lavorare sodo, ogni giorno, per essere più forte, più lucido, più pronto. Il risultato, quello vero, è in ciò che diventi, non solo in quello che ottieni.
E infine, c’è una parola che per me è la vera chiave: autoconsapevolezza. Sapere chi sei, che tipo di atleta e che tipo di persona vuoi essere. Quando sei connesso con te stesso, anche un quarto posto può avere un significato profondo. Può essere il punto di svolta, il momento in cui capisci quanto sei vicino e quanto ancora puoi crescere“.
Quali sono le reazioni psicologiche più comuni negli atleti?
“La reazione a un risultato è un termometro della psiche dell’atleta. E più è alta la consapevolezza, più quella reazione può diventare una leva, non un ostacolo. Mi spiego meglio: le reazioni psicologiche degli atleti dopo una gara soprattutto quando il risultato non è quello atteso possono essere molto diverse, ma tutte ci parlano del livello di consapevolezza e maturità della persona che sta dietro all’atleta. Certo, la delusione è una reazione comune, quasi inevitabile. Ma va compresa nel suo contesto: quando prevale, spesso è segnale di una maturità ancora in evoluzione. È umano voler vincere, ma quando il risultato offusca tutto il resto il lavoro fatto, i progressi, la performance allora manca ancora quella visione ampia che distingue il vero professionista.
Dall’altro lato, ci sono atleti che, anche di fronte a un quarto posto o a un podio mancato, reagiscono con una scintilla diversa negli occhi. Perché? Perché sentono che sono vicini al top. Sanno leggere quel risultato come conferma di essere sulla strada giusta. E qui entra in gioco la consapevolezza di sé: sapere dove sei, dove vuoi arrivare, e soprattutto chi stai diventando lungo il percorso.
E poi c’è un altro aspetto potentissimo: la spinta motivazionale in termini di bisogni umani. Alcuni atleti sono mossi da un bisogno di riscatto e competizione, da quel bisogno che la motivazione scientifica chiama vendetta non nel senso distruttivo del termine, ma come energia di rivalsa, desiderio di dimostrare a se stessi e al mondo che valgono. Altri sono spinti dallo status, dal bisogno di affermarsi, di essere riconosciuti. E queste motivazioni, se canalizzate nel modo giusto, diventano carburante purissimo per raggiungere nuovi picchi“.
Sappiamo che ha seguito diversi atleti tra i quali Niccolò Pisilli nella sua esperienza: un ragazzo ancora giovane che probabilmente si abbatte quando sbaglia una giocata. Come lo ha gestito? E’ diventato più forte sotto il profilo psicologico?
“Ho iniziato a seguire Niccolò quando aveva 17 anni, in un momento cruciale della sua crescita sportiva e personale. Parliamo di un’età in cui il talento c’è, la visibilità inizia ad aumentare, ma l’equilibrio interiore è ancora tutto da costruire. È facile scoraggiarsi, soprattutto quando si fa un salto di categoria: fino a ieri eri “il più forte”, e all’improvviso ti ritrovi in un contesto dove devi ricominciare a dimostrare tutto, spesso anche a te stesso. Eppure, Niccolò ha sempre avuto una forza mentale importante. Nonostante le inevitabili difficoltà e qualche momento di frustrazione che sono assolutamente normali ha scelto di lavorare in profondità. Il nostro percorso insieme si è basato su un processo di autoconsapevolezza: imparare a riconoscere le proprie risorse, accettare i propri limiti senza farsene schiacciare, valorizzare le potenzialità reali, quelle che emergono non solo quando tutto va bene, ma soprattutto quando si sbaglia una giocata o non ci si sente pienamente apprezzati. A partire dalla fine del 2024 il nostro rapporto professionale è terminato, ma ci sentiamo ancora e sta continuando a sviluppare una solidità mentale che oggi si vede in campo: reagisce meglio, recupera più in fretta, resta concentrato sull’obiettivo. E soprattutto, sta imparando a non farsi definire da un errore, ma auspicabilmente a usarlo come trampolino. Sono fiero di lui e della forza mentale che sta sviluppando nel tempo“.
Passando ad una prospettiva che riguarda il transitare dal fallimento al rilancio e parlando quindi del momento in cui un Mental Coach, entra in gioco: quali strategie possono aiutare a trasformare la frustrazione in spinta per il futuro? Ci sono tecniche specifiche per gestire lo stress e la delusione post-gara?
“Domanda fondamentale, perché tocca uno dei momenti più delicati nel percorso di un atleta: quello in cui si scivola, si inciampa, si sbaglia. Ed è proprio lì che spesso viene chiamato in gioco il Mental Coach. Ma voglio dire una cosa in maniera chiara: il momento ideale per iniziare un lavoro mentale non è la crisi. Il momento giusto è quando tutto sta andando bene. Perché il nostro vero ruolo non è “riparare” qualcosa che si è rotto, ma ottimizzare, portare l’atleta verso l’eccellenza, affinare ogni dettaglio per performare al massimo. Detto questo, è vero che spesso veniamo coinvolti nel momento della difficoltà. E lì, più che proporre tecniche spot, è essenziale partire da una base solida: il profilo motivazionale dell’atleta, quello che chiamiamo il DNA Emotivo. Si ricava attraverso un test di 128 domande che fornisce risultati validati da un modello scientifico, si chiama ‘Reiss Motivation Profile’. Ci serve per capire che cosa muove davvero l’atleta. È spinto dalla voglia di vincere, dalla necessità di sentirsi riconosciuto, dalla sete di rivalsa, o magari dall’evitare lo stress, dallo spirito di esplorazione di attività ed esperienze nuove, dal guadagno? Forse da un mix di alcuni di questi. Diventarne consapevoli ci permette di costruire strategie personalizzate, che fanno leva su ciò che è davvero rilevante per lui, non su un modello standard. E poi c’è un passaggio chiave, che spesso spiazza: io dico sempre che la frustrazione è una benedizione. Sì, perché è una forza grezza, potentissima. Va riconosciuta, accolta, mai repressa. È energia in movimento. E se incanalata nella giusta direzione, può diventare una spinta incredibile verso il miglioramento. Ogni emozione ha un suo ruolo, una sua funzione. E il nostro lavoro è aiutare l’atleta a leggerla, a usarla, a trasformarla. Infine, un cambio di paradigma: non focalizzarsi sul risultato, ma sulla performance. Il risultato è spesso fuori dal nostro controllo, può dipendere da mille variabili. Ma la performance, quella sì, è nelle nostre mani. E se riesci a renderla costante, solida, coerente nel tempo, allora i risultati non possono che arrivare. Prima o poi, ma sempre”.
Mi è capitato di sentir parlare di quella dell’isolamento mentale rispetto al contesto che circonda l’atleta per poter ripetere la prestazione e migliorare il risultato. Può funzionare? E quando è meglio applicarla?
“Assolutamente sì, l’isolamento mentale può funzionare, ma va prima di tutto compreso a fondo e soprattutto allenato con cura. È una tecnica potente, ma come ogni strumento va gestita con consapevolezza. Quando parliamo di “isolamento mentale” ci riferiamo a una condizione che somiglia molto a una forma di autoipnosi: un monoideismo, cioè la capacità di concentrare tutta l’attenzione, tutta l’energia psichica e percettiva su un unico focus che può essere un pensiero, una sensazione, un’immagine interna o una risorsa specifica, escludendo tutto ciò che può distrarre, disturbare o sottrarre energia alla performance. Questa condizione è ciò che, nel linguaggio della psicologia dello sport, viene definita ‘flow’: lo stato ottimale di prestazione. È quel momento in cui l’atleta è totalmente immerso in ciò che fa, perde la percezione del tempo, del giudizio esterno, della pressione e si fonde con il gesto tecnico, con l’azione. È lì che si raggiungono i picchi più alti di rendimento. Ma attenzione: il “flow” non si improvvisa. È frutto di allenamento mentale, oltre che fisico. Ecco perché nel mental coaching utilizziamo strumenti come il “Training Autogeno” e la “Mindfulness”. Il primo aiuta l’atleta ad allenare la concentrazione profonda e la gestione delle risposte fisiologiche (come il battito cardiaco o la tensione muscolare), il secondo allena la presenza mentale, la capacità di restare nel “qui e ora”, senza farsi trascinare via da pensieri, paure o aspettative. L’isolamento mentale funziona particolarmente bene in contesti ad alta pressione una finale, un rigore decisivo, un salto da medaglia, dove l’atleta deve spegnere il rumore del mondo esterno per accedere al proprio mondo interno e rientrare in uno stato di prestazione pura. Ma la chiave, come sempre, è l’autoconsapevolezza: sapere quando usarlo, come entrarci e come uscirne. Perché un atleta che sa isolarsi nel momento giusto è un atleta che ha imparato non solo a gestire la mente, ma a farne il suo più grande alleato“.
In che modo un mental coach può aiutare gli atleti a elaborare un mancato podio?
“È una domanda interessante, e va subito fatta una precisazione: non è il compito del Mental Coach ‘elaborare’ un risultato per conto dell’atleta. Il nostro ruolo non è terapeutico, né consolatorio. Il nostro compito è quello di riportare l’atleta alla realtà oggettiva, ai dati, alla performance. Il podio è solo un dato. È la lettura che se ne fa, l’interpretazione soggettiva, a determinarne l’impatto emotivo.
Per questo, dopo un mancato podio, la strategia non è guardare indietro con rimpianto, ma costruire in avanti partendo da un’analisi lucida e funzionale. Lo facciamo attraverso una sequenza di domande strategiche che guidano l’atleta a trasformare l’esperienza in apprendimento e risorsa:
- Cosa ho fatto bene? Partiamo sempre da qui: spostiamo il focus sul valore della prestazione, su ciò che ha funzionato. Anche nella sconfitta c’è sempre qualcosa che merita di essere riconosciuto.
- Quali aspetti positivi ci sono nella mia performance? E allora, andiamo in profondità: tecnica, tattica, gestione emotiva, comunicazione. Anche i piccoli miglioramenti vanno evidenziati.
- Quali sono gli aspetti migliorabili della gara che ho disputato? Ora sì, possiamo guardare con occhio critico e costruttivo. L’errore non è un fallimento, ma un feedback.
- Che emozioni positive associo agli aspetti che ho fatto bene? Questa domanda serve a rinforzare il senso di efficacia personale e motivazione. Non basta sapere di aver fatto qualcosa di buono: bisogna anche sentirlo.
- Cosa posso fare per migliorare ciascun aspetto che ho individuato? Da qui nasce il piano di crescita. E segue una mini-sequenza: Quali risorse ho già per farlo? – Quali risorse mi servono ancora? – Chi può aiutarmi ad acquisirle in modo efficace e veloce?
Questo è il cuore del lavoro mentale post-gara: non dare un significato al risultato, ma ‘generare un’evoluzione’ a partire da esso. E così il mancato podio diventa una tappa, non una fine. Una leva per andare oltre“.
Può farci qualche esempio di atleti che hanno vissuto il quarto posto come un punto di partenza per il successo?
“Assolutamente, la storia dello sport è ricca di esempi, non sempre così noti, in cui il quarto posto ha rappresentato non una sconfitta, ma un punto di svolta verso il successo. Questi atleti hanno saputo trasformare la delusione in determinazione, utilizzando l’esperienza come trampolino per raggiungere traguardi ancora più alti. Da alcune ricerche online ne ho selezionati alcuni a mio avviso rilevanti:
- Aljona Savchenko – Pattinaggio di figura: dopo aver conquistato due bronzi olimpici con un precedente partner, l’atleta ha ottenuto un quarto posto nel programma corto alle Olimpiadi invernali di PyeongChang 2018. Determinata a superare questo risultato, ha eseguito un programma libero impeccabile con il nuovo partner Bruno Massot, conquistando la medaglia d’oro e segnando un record mondiale nel punteggio del programma lungo.
- Milkha Singh – Atletica leggera: conosciuto come “The Flying Sikh”, ha sfiorato il podio nei 400 metri alle Olimpiadi di Roma del 1960, terminando quarto per un soffio. Questo risultato, sebbene doloroso, ha rafforzato la sua determinazione, portandolo a diventare una leggenda dell’atletica indiana e ispirando generazioni future.
- Bruno Fratus – Nuoto: il nuotatore brasiliano ha vissuto la frustrazione di un quarto posto alle Olimpiadi di Londra 2012. Anni di duro lavoro e resilienza lo hanno portato a conquistare la medaglia di bronzo nei 50 metri stile libero a Tokyo 2020, dimostrando che la perseveranza può trasformare la delusione in successo.
- Neil Gourley – Atletica leggera: dopo un quarto posto ai Campionati Europei Indoor, il mezzofondista britannico Neil Gourley ha utilizzato quell’esperienza come motivazione, conquistando la medaglia d’argento nei 1500 metri ai Mondiali Indoor in Cina, dietro al campione olimpico Jakob Ingebrigtsen.
- Georgia Hunter Bell – Atletica leggera: dopo la delusione per il quarto posto agli Europei Indoor, ha ottenuto il bronzo nei 1500 metri ai Mondiali Indoor, segnando un nuovo record personale“.
Il Quarto Posto può anche essere visto anche come opportunità, per chi riesce ad avere una mentalità vincente oltre il podio. Mi spiego piú nel dettaglio: spesso si dice che “chi arriva quarto soffre più di chi arriva quinto”. È davvero così?
“Non necessariamente. In realtà, più che una verità psicologica, questa affermazione è un luogo comune che spesso nasce dalla percezione di chi osserva dall’esterno, non da chi vive la competizione in prima persona. Sono gli osservatori, i commentatori, talvolta anche i tifosi, a proiettare emozioni e giudizi sul risultato, mentre l’atleta, nella maggior parte dei casi, è perfettamente consapevole che in ogni gara ci sarà un vincitore… e tutti gli altri, dal secondo in poi, non hanno vinto.
Il podio è una costruzione culturale: ci dice che c’è un primo, un secondo, un terzo… e che il quarto, in qualche modo, resta fuori dalla “foto”. Ma se guardiamo la questione con più distacco, vediamo che un quarto posto non è molto diverso da un secondo o da un decimo. Sono tutte posizioni che indicano un non-vincente in quella gara, punto. Ciò che cambia è il significato che attribuiamo a quel risultato, ed è lì che entra in gioco la mentalità dell’atleta. In natura, non esiste una classifica numerica: esiste il confronto, il riconoscimento della leadership e, al massimo, la decisione se accettare temporaneamente una posizione subordinata oppure lottare per ribaltare i ruoli. È questa la vera spinta competitiva. E, in effetti, se guardiamo alle dinamiche motivazionali profonde, ciò che spesso muove l’essere umano in ambito sportivo non è tanto la gloria in sé, quanto il desiderio di rivalsa, quella spinta che nella psicologia motivazionale viene identificata con il bisogno di Vendetta intesa come forza che alimenta l’ambizione e il miglioramento continuo.
Non direi che è la posizione a determinare la sofferenza, ma il significato che l’atleta attribuisce a quel risultato. E chi ha una mentalità orientata alla crescita sa che ogni esperienza, anche il “quarto posto”, può essere un’opportunità straordinaria per costruire il proprio futuro“.
È giusto affermare che la resilienza sia la chiave di volta di tutto? Che Cosa si attiva in certi atleti a livello inconscio? Sono tutti più o meno predisposti, a prescindere dalla risposta psicologica di ciascuno a riemergere dalla sofferenza estraendo da questa la linfa vitale per produrre la versione migliore di loro stessi?
“La resilienza è sicuramente una delle forze chiave che distinguono chi si rialza da chi resta a terra. È quella capacità, spesso invisibile ma potente, che trasforma il dolore di un mancato risultato in una volontà ancora più forte di reagire e migliorare. Non è solo resistenza alla fatica o alla frustrazione: è un vero e proprio ‘trasformatore emotivo’, che nasce da una profonda autoconsapevolezza delle proprie risorse e dei propri punti di forza. Ma non è detto che tutti siano predisposti allo stesso modo. Alcuni atleti, soprattutto se molto giovani, possono essere travolti dall’insuccesso, sentirsi svuotati, perdere motivazione. Altri invece, spesso perché guidati da una struttura interiore più salda o perché ben accompagnati da un lavoro mentale profondo, riescono a trasformare la delusione in carburante per una nuova ripartenza.
La resilienza, d’altro canto, non è solo una dote innata. È un’attitudine che si può educare, costruire, allenare. E oggi più che mai, in un’epoca in cui tutto sembra dover arrivare in fretta, diventa fondamentale insegnare agli atleti, e soprattutto ai più giovani, che stringere i denti, reggere la pressione e imparare dal dolore è uno degli elementi fondanti di ogni vera carriera sportiva. Perché è proprio lì, nel momento della frattura, che può nascere la versione migliore di sé“.
È pericoloso, a volte, parlare di trasformare la mente in un acceleratore di risultati? L’atleta rischia forse così di iper-performare prima del tempo o di crearsi aspettative piú grandi delle sue reali potenzialità? Come valuta questo approccio? Lo condivide?
“Credo che la vera domanda sia: conosciamo davvero il nostro limite? La verità è che, nella maggior parte dei casi, no. Non sappiamo fino a che punto possiamo spingerci, perché spesso operiamo al di sotto delle nostre reali potenzialità. Ecco perché lavorare sulla mente non è affatto pericoloso, se fatto con consapevolezza: significa imparare ad accedere in modo più pieno alle nostre risorse inconsce, emotive e mentali, per crescere come persone prima ancora che come atleti. Quando parliamo di “accelerare risultati”, non ci riferiamo a una corsa cieca verso il successo, ma a un processo di integrazione profonda tra mente, corpo e spirito. È lì che si gioca la vera partita: non sulla vittoria fine a sé stessa, ma sulla capacità di evolvere. Se poi questa crescita si riflette in una performance sportiva di livello, ben venga. Ma l’obiettivo primario resta sempre uno: esplorare il nostro potenziale umano, in modo autentico ed ecologico.
Non è il risultato in sé a fare la differenza, ma il modo in cui ci arriviamo. Per questo non bisogna demonizzare l’ambizione o il desiderio di eccellere. Al contrario, se questo percorso è costruito rispettando le caratteristiche individuali dell’atleta e inserito in un contesto sano, allora sì: la mente può e deve diventare un acceleratore di consapevolezza, prima ancora che di prestazione. Solo così, la performance diventa un’espressione coerente e potente dell’essere umano nella sua interezza“.