Viaggio nell’anima di Liverpool: Anfield, Shankly, pallone e quotidianità
di STEFANO RAVAGLIA
In principio fu una miniera: duro lavoro, le fosse di carbone come habitat naturale, il pane da dividere con gli altri colleghi. Era Bill Shankly da Glenbuck, un villaggio di mille anime in Scozia finito sulla mappa del pallone perché lì era nato quell’allenatore che fece la storia in rosso. Socialismo e pallone: così come in quelle profonde miniere, anche in campo si doveva lavorare di gruppo e dividersi il premio, come nella migliore concezione degli sport di squadra. C’è sempre Shankly, in ogni angolo di Liverpool: la città multi culturale, moderna e vivace ma che conserva ancora tanta tradizione, ha festeggiato il ventesimo titolo nel campionato inglese (non chiamatelo “scudetto”, mamma mia!) ma non c’è differenza tra i glory days e i giorni grigi. Quella gente, o almeno la sua metà rossa, c’è sempre stata.
Il Liverpool come lo conosciamo oggi è figlio di Shankly: il suo temperamento e la sua sconfinata intelligenza hanno creato il club moderno che continua a vincere anche dopo Klopp. Sulla cima del Royal Liver Building, Bertie e Bella, ovvero le statuette dei due cormorani che guardano uno il Mersey e l’altro la città, mantengono ovviamente la loro impassibilità ma mai come oggi appaiono così in alto. Come questa città e questo club straordinari, uniti da un legame indissolubile passato attraverso il quasi anonimato iniziale, la notorietà dei favolosi giorni di Callaghan, Dalglish, Highway, Keegan e mille altri protagonisti in un tempo in cui la divisa era completamente rossa senza alcun orpello, i capelli a mezzo collo e i numeri bianchi grandi quasi come tutta la schiena, sino ai tempi moderni. E viva anche quando i giorni grigi erano la normalità: nel 1981 la disoccupazione in città tocca il 20%, un dato ben più alto della media nazionale. Il porto, che nell’Ottocento era il più importante d’Europa e che aveva accolto navi da qualsiasi parte del mondo sdoganando quel melting-pot che ha dato origine anche un inglese tutto particolare e incomprensibile per chi non lo mastica, non rappresentava più l’Eldorado e le rivolte a Toxteth, il quartiere di Robbie Fowler e Wayne Rooney, a sud della zona nevralgica della città, avevano fatto divenire Liverpool un luogo dove, per dirla come scrisse il “Daily Mirror” nel 1982, “si dovrebbe alzare una barriera e far pagare per entrare”. La cronaca nera si impadronisce della città senza pietà con i fatti dell’Heysel nel 1985 e, seppur in tutt’altro contesto, con la fatalità di Hillsborough nel 1989, i cui 97 morti vengono ricordati quasi ogni giorno da quelle parti.
La Kop non è una “curva”, ma una istituzione e Anfield una Chiesa. Al cui interno si svolge settimanalmente una messa laica: l’ombra gettata dal profondo cambiamento degli impianti inglesi ha intaccato un po’ l’atmosfera di un luogo in cui un tempo la gente risucchiava il pallone in rete (fu abbattuta per essere ricostruita nel 1994, ultima partita Liverpool-Norwich 0-1) e oggi i suoi seggiolini sono occupati da un pubblico diverso, in linea con la diffusione globale della Premier League che, costa dirlo, vorrebbe più clienti che tifosi un po’ come tutto il calcio e come tutto lo show-business che va impadronendosi del pallone a molte latitudini. Eppure qui qualcosa, anzi, tantissimo, è rimasto. I murales di Gerrard e di Ray Clemence come di Alexander-Arnold, la musica di Jamie Webster, scouser born and bred come si dice di chi è nato a Liverpool e ce l’ha nel sangue, che con la sua chitarra raduna la folla rossa prima della partita, sia ad Anfield o in finale di Champions League a Madrid, e mette su un concerto con le note dei cori a ciascun giocatore. Quel cancello, lo Shankly Gate (torniamo sempre lì), inaugurato nel 1982 dopo la morte del manager scozzese che un giorno, durante un giro di campo per celebrare uno dei suoi tanti trionfi, raccolse una sciarpa biancorossa piovuta in campo e pestata da un poliziotto. “Non calpestarla, per te è una sciarpa ma per chi la indossa è la vita”, le parole di Shankly che vennero colte dai microfoni. E poi il Flatiron o il Sandon, oppure l’Albert e il The Park, appena usciti dalla Kop, attraversando la strada: pub che traboccano di birra e d’amore.
Sì, lo so, non abbiamo parlato dei Beatles e del Cavern, ma mica possiamo sempre piegarci al mainstream: quando Bill Harry sul “Merseybeat”, quindicinale che aveva la sua sede sopra una salumeria, negli anni Cinquanta recensiva su quel giornale tutto il fermento musicale che inebriava la città, divenuta qualcosa come New Orleans lo fu per il jazz, non c’erano solo quegli iconici ragazzi coi capelli a scodella che sarebbero divenuti di fama planetaria, ma anche gruppi come gli Hurricane o Gerry and The Pacemakers, ai quali si deve l’incisione di You’ll never walk alone, una musica originaria di un Musical dal titolo “Carousel” datato 1945 e che la Kop, a forza di sentirla dagli altoparlanti di Anfield, aveva adottato come suo inno.
Nel 2008 la città diventa capitale della cultura, e ha ingurgitato la Brexit in malo modo essendo votata alla più calda accoglienza e apertura verso il mondo. Si è rinnovata da anni e continua a farlo (fate un salto al Baltic Triangle, ex area industriale e oggi colma di caffè e spazi artistici), soprattutto nella zona dei Docks, che oggi ospitano numerosi musei e dalla prossima stagione saranno meta di pellegrinaggio per la parte blu di Liverpool, poiché l’Everton giocherà nel suo nuovo impianto affacciato proprio sul Mersey, a nord, verso Bootle. E dopo Bootle, se proseguiamo, incontriamo Crosby, paese della contea del Merseyside fuori Liverpool: è qui che si stagliano cento statue di manichini di ghisa opera di Antony Gromley, piantate sulla sabbia in mezzo all’acqua e rivolte verso il mare d’Irlanda. Con l’alzarsi e l’abbassarsi della marea, le statue prima emergono e poi scompaiono. Si chiama “Another place”, un altro posto. Ed è difficile trovare, sia nei giorni di trionfo come questi, che nei giorni grigi, un altro posto come Liverpool. La città del calcio come e più di Rio o Buenos Aires che festeggia un’altra ora gloriosa come la sua storia: bellissima, tragica, struggente e mai banale.