Entusiasmo e resilienza: Gianni Sasso, l’insuperabile che non conosce ostacoli
di FRANCESCO MAFERA
Quando parliamo di persone che hanno la stoffa del campione, non vogliamo parlare di luoghi comuni triti e ritriti. Ma di persone che meritano davvero questa mensione. Di chi ha dato al suo vissuto una connotazione di resilienza. Di esemplare voglia di non arrendersi. E che ha trasmutato la sofferenza nella gioia di chi, nonostante tutto, ha il cuore colmo di quel senso di libertà che fa vivere davvero.
Lo stesso spirito che ad esempio in questo periodo muove anche Insuperabili con il progetto “Ma quale ostacolo?”, nato per sostenere e far crescere la Squadra Ufficiale di Calcio Amputati, una realtà che sta cambiando il volto dello sport paralimpico in Italia. Una squadra fatta di uomini e donne che ogni giorno si allenano, competono, si sfidano. Non per dimostrare qualcosa agli altri, ma per vivere pienamente ciò che amano: lo sport. Oggi la formazione si inserisce all’interno di un ecosistema consolidato in virtu dei tanti anni di attività e un numero elevato di sedi che hanno portato al coinvolgimento di moltissimi atleti a praticare sport con continuità. Per far sviluppare questo movimento servono tuttavia risorse. Non solo economiche, ma anche culturali: servono attenzione, spazio, ascolto, consapevolezza. Serve raccontare. E farlo attraverso voci che hanno già aperto la strada. Come quella di chi non si arrende mai.
Chi sa bene come è fatto questo mondo è Gianni Sasso, un esempio di resilienza polifunzionale e incoraggiante che è stato un modello di vita per molti: classe 1969, ischitano, amputato alla gamba sinistra dall’età di 16 anni in seguito a un incidente stradale, Gianni è oggi un simbolo vivente di cosa significhi non fermarsi mai. Calciatore, triatleta, maratoneta, olimpionico: la sua è una delle storie più incredibili dello sport italiano. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare cosa significa essere atleti quando la sfida principale non è il cronometro, ma la vita. La storia di chi non ha mai accettato un “no” come risposta dalla vita, dimostrando che aveva pure ragione.
Gianni, la sua storia è nota a molti. Ma se potesse scegliere un momento da cui tutto è davvero iniziato, quale sarebbe?
“Sicuramente, il momento in cui è partita la mia rinascita è stato due settimane dopo aver perso la gamba in un incidente stradale mentre ero insieme a quello che è tutt’oggi il mio migliore amico Gennaro Di Meo, quando tra l’altro tutti i miei compagni dell’Istituto alberghiero erano venuti a trovarmi in ospedale per darmi sostegno. Venne pure il mio dirigente scolastico Antonio De Simone che fece uscire fuori tutti quanti e disse: ‘Gianni tu adesso devi capire bene una cosa: nella tua vita potrai fare qualsiasi cosa, qualsiasi mestiere, ma d’ora in avanti ciò che non potrai più fare è giocare a calcio’. È come se mi stesse proibendo un qualcosa che andava anche oltre il fatto di giocare a calcio, quello di stare insieme ai miei amici di sempre, giocando a pallone per strada, facendo le porte con le pietre o gli zaini di allora. Al che io mi alzai dal letto e risposi ‘professo’! I torn’ di nuovo a giocare a pallone’. Ecco, quello è stato uno stimolo fortissimo. La negazione di poter fare una cosa mi ha portato a pensare a quello che avevo e non più a quello che non avevo. Quindi ho imparato a correre, a giocare a calcio, usando le mie stampelle. Nella vita quotidiana ho poi messo le protesi, mi sono specializzato nel sociale, ho fatto tantissime cose. Ho imparato molto. Li c’è stato il cambiamento. Ho visto questo masso in mezzo alla strada e così ne ho presa un’altra per poter raggiungere il traguardo dall’altro lato. Mi sono detto che dovevo ripartire anche se ero ancora piccolo. Ci sono state certamente delle situazioni spiacevoli che dovevo comunque assorbire, accettare per tantissime cadute e per i pregiudizi che ci potevano essere all’epoca e che oggi non esistono più. Io ho capito che mi mancava pochissimo o anzi niente. E quella consapevolezza è stato il punto di partenza, il punto della rinascita, il punto in cui non volevo accettare perchè ciò che volevo fare nella mia vita era giocare a calcio stando con i miei amici e vivere così uno sport che ai tempi era quello più importante che ci poteva essere”.
Ha corso maratone in tutto il mondo, partecipato alle Paralimpiadi di Rio come triatleta, ma è partito dal calcio. Cosa rappresenta per lei questo sport?
“Si, io nella mia vita ho partecipato anche alle paralimpiadi, ho fatto il record del mondo di maratona, sia nei 10 che nei 21 km. Adesso mi appresto ad affrontare quella di New York per infrangere un altro limite.
Il calcio, come le dicevo, è stato per me una cosa importante: è stata quella molla che mi ha portato sicuramente a rinascere a livello sportivo ma anche all’introduzione ad un ruolo nel sociale e di nuovo con gli amici di sempre. È stata questa la cosa più importante. Io quando ero piccolo volevo fare solo una cosa: giocare a pallone. Poi un giorno vicino a Ischia, in quel di Napoli scese un certo Diego Armando Maradona e da li questo sport è diventato una ossessione. Quindi era un qualcosa di inimmaginabile non poter giocare a calcio. Anche se non ero di fede napoletana, voglio dire: ma come si fa a non amare uno sport quando si hanno queste sensazioni? E questo vale per ogni disciplina, anche non sportiva. Nel mio caso, il calcio è stato importantissimo, mi ha aiutato a inserirmi nel sociale ma anche a essere consapevole che potevo farlo. Addirittura facevo i tornei di calcio a 5 con i normodotati. Stiamo parlando anche di gente come Martusciello, Taglialatela, Brienza etc. Quindi gente di Serie A che all’epoca aveva vent’anni. Ed ero anche bravo. Sono stato il primo in Italia in grado di giocare a calcio con le stampelle per poi nel 2012, insieme a Francesco Messori costituire la nazionale di calcio amputati che adesso è una grandissima realtà paralimpica. Tra l’altro, il Calcio Amputati è il calcio più praticato in tutto il mondo a livello paralimpico, anche se non riconosciuto da questo mondo perché non c’è la richiesta, essendo uno sport a se: Ma è un calcio vero, un calcio puro ed è comunque diventato una realtà importante a cui appunto per questo non gli serve probabilmente aggregarsi alle paralimpiadi. Gode di altissima visibilità. In tutto il mondo ci sono già quasi novanta nazionali. E adesso anche a livello femminile. Sono stati fatti i mondiali e quant’altro. Insomma, sono stati superati tutti gli sport paralimpici”.
Come vede il lavoro che oggi sta facendo Insuperabili con il progetto “Ma quale ostacolo?” e la loro squadra Amputati?
“Anche con loro ci ho giocato un anno. Sono una associazione davvero importantissima per quanto riguarda la missione sociale che comprende perché fa fare calcio a tutti. Non solo agli amputati, ma anche ai non vedenti e a chi soffre di deficit intellettivi. Quindi è un messaggio importante quello che il Presidente Davide Leonardi sta mandando. Parliamo di una organizzazione davvero di grande impatto perché sta dando visibilità a questo sport, segnando un percorso importante che aiuta attraverso l’aggregazione tutte quelle persone che vogliono fare calcio pur avendo qualche tipo di disabilità, senza alcun tipo di pregiudizio rispetto alla possibilità di praticarlo. Io ci ho giocato per una stagione ma adesso mi sono un attimo staccato perché volevo provare altre cose. Ad esempio l’anno scorso ho fatto il cammino di Santiago, quello che io considero l’esperienza più bella della mia vita: mille chilometri a piedi con le stampelle. Lì è nata la “mostra del cammino di Santiago”, ovviamente con tantissimi speech motivazionali e tantissime scuole coinvolte. Poi ho fatto tante altre cose e adesso conto di tornare a giocare a calcio”.
Correre e fare sport è formativo perché, come lei stesso ha detto in una delle sue testimonianze, è soprattutto un viaggio di riscoperta interiore. Può quindi essere definita come scuola e metafora di vita che in quanto tale da forza poichè permette di lasciare andare i pensieri e di disporsi in ascolto della vita attraverso l’accettazione?
“Personalmente io non ho avuto problemi di accettazione o meno. Io ho cercato sempre, fin dall’inizio, di fare sport, di fare calcio, di fare corsa perché questo mi dava consapevolezza e una formazione incredibile che rafforzava il mio pensiero sul poter fare di tutto. Quello che io voglio trasmettere è che tutti possiamo farcela a praticare sport e a prepararsi nel modo adeguato. Deve essere un modo per spronare anche in ambito sociale. Non c’è bisogno di essere grandi atleti per fare sport. Anche se non a grandi livelli, l’importante è farlo sempre perché lo sport allontana da tantissime cose. È quello che dicono le scuole, non è uno strumento di enfatizzazione agonistica.
Lo sport, a prescindere, è quello che ci aiuta, che ci avvicina e che ci da un cammino migliore nella vita. Non è solo un fattore atletico perché comunque ti fa star bene mentalmente, crea dopamina, ti da autoconsapevolezza. Lo sport è quello che si fa la mattina in quei 30-40 minuti di corsa, prima di andare al lavoro, è quello del partecipare ad una gara, probabilmente anche senza il fattore agonistico a farlo da padrone”.
Cosa direbbe a chi pensa che il calcio amputati sia “meno calcio”?
“Dico che Il calcio amputati è il calcio vero. È quello che più si avvicina al calcio dei normodotati. Infatti noi siamo gli unici che possiamo unificarlo attraverso l’integrazione. Noi usiamo le stampelle solo per correre, queste non possono toccare il pallone, ci sono delle regole ben precise ed è anche per questi aspetti che ripeto il concetto: il nostro è calcio vero! Chi pensa che non sia così, venga a giocare e a vedere come ci si allena. Noi riusciamo a stoppare la palla col petto, in tutte le maniere che volete. Riusciamo a correre, a fare colpi di testa, rovesciate, di tutto. E il modo di integrare con il calcio dei normodotati è fatto a livello importante. Ci sono delle squadre in Turchia o in Polonia che se la batterebbero alla pari anche con squadre di Promozione, dandogli filo da torcere. E tutto questo considerando che le stampelle non possono essere utilizzate per dei tocchi che anche a livello involontario non sono permessi. Si gioca solo con la gamba, la testa e il cervello. È diventato come un calcio professionistico”.
Oltretutto, lei è pure un esempio per i bambini. Insieme a Sport senza Frontiere. Ci racconti come concepisce e sente nel più profondo del suo cuore questa esperienza…
“Faccio parte di ‘Sport senza Frontiere’ già da diverso tempo. Quest’anno ho avuto la possibilità di fare un camp estivo di un mese e mezzo dove ogni settimana cambiavano cento bambini. Sono stato in mezzo a sei-settecento di questi che venivano da tutte le parti d’Italia, da case famiglia che hanno problematiche. Io li ho allenati sia per il calcio che per l’atletica. La cosa interessante è che, vedendomi fare determinate cose, si dimenticavano di tutto. Li vedevi col sorriso. Quindi io da quest’anno ho deciso insieme alla Maratona di New York, di fare una raccolta fon di per la quale cerco sostegno dato che questa associazione ha dei costi innumerevoli. E più ci sono fondi e più possiamo togliere bambini dalla strada, dandogli la possibilità di un cammino migliore che passi attraverso lo sport. Questo il messaggio che stiamo lanciando e che io personalmente porterò fino a New York e oltre”.
Lei oggi è un simbolo per tanti. Ma se tornasse indietro, a quando aveva 16 anni e tutto sembrava finito, cosa direbbe a se stesso?
“Se tornassi indietro a quell’incidente potrei dire che non so come io abbia fatto, dove io abbia trovato le forze. Ma le ho trovate. Perché venivo da una famiglia di lavoratori. I miei lavoravano nei ristoranti e da mio padre ho ereditato la forza mentale che è la qualità migliore che mi si può attribuire. Quello, ma anche la volontà di non essere di peso alla mia famiglia e di giocare con i miei amici in estate, mi hanno aiutato.
Tornando alla domanda, mi chiederei: ‘ma come ho fatto?’. Anche perché a volte vado a pensare ai record del mondo che ho fatto registrare. Dei record incredibili, maratone a 4’28” al chilometro. Mi guardo e ripenso: ‘ma come si fa con le stampelle a correre da 4’28” a 6’20” al chilometro? Oppure come si percorrono 10 km in un’ora?” Ci vuole tanta forza mentale e dedizione come quelle che sto mettendo in pratica adesso io in questo periodo. Voglio prepararmi alla Maratona di New York, insieme ai bambini di Sport senza Frontiere per cercare di avvicinare il record che feci tantissimi anni fa di 5’05” in quella stessa competizione”.