Veri campioni, oltre il risultato: la nuova consapevolezza degli atleti
di Martà Mulè
Parigi 2024 è stata l’edizione dei Giochi Olimpici che si è distinta per una nuova consapevolezza dimostrata dagli atleti, che hanno proposto una narrazione alternativa a quella di supereroi programmati per vincere, mostrandosi, invece, come persone con il loro carico emotivo, le loro riflessioni, la loro idea dello sport.
La nuova generazione di sportivi, infatti, ha dimostrato di vivere il lavoro con grande serietà, ma anche con più equilibrio: non è vincere l’unica cosa che conta, ma dare il massimo, che non è un concetto uguale per tutti. La nuotatrice Francesca Fangio, per esempio, si è fermata in semifinale nei 200 rana, ma si è commossa davanti alle telecamere per la soddisfazione di essere riuscita a prendere parte a un’altra edizione a cinque cerchi. «Per molti forse può sembrare una frase fatta quando si dice che l’importante è esserci, ma per me lo è stato», ha detto.
C’è stata poi la rivoluzione dei quarti posti, vissuti si con la normale amarezza di chi è andato a un passo da un grande obiettivo, ma anche con la gioia di un piazzamento che, da essere considerato il peggiore in assoluto, è diventato motivo di orgoglio. Il merito di questo cambio di prospettiva va a tanti, a cominciare da Benedetta Pilato, che ha avuto il coraggio di pronunciare parole inedite e destabilizzanti come: «È stato il giorno più bello della mia vita» dopo il quarto posto nei 100 rana.
Da allora si è parlato di una ritrovata cultura sportiva e di una visione più sana delle competizioni. Che non significa mancanza di ambizione: non è un accontentarsi passivo di ciò che arriva, ma un’accettazione serena quando si sa di avere fatto tutto quello che si poteva. Questo modo di vedere le cose nasce anche da un’attenzione sempre maggiore da parte degli atleti verso la salute mentale che è diventata indispensabile per reggere la pressione di momenti da cui può dipendere il futuro delle proprie carriere.
«Lo sport è la mia vita, ma non è tutta la mia vita», ha scritto sui suoi social Arianna Errigo, portabandiera azzurra a Parigi 2024 e fiorettista con un palmarès infinito. Quest’anno ha realizzato l’ennesima impresa partorendo i suoi gemelli a marzo e tornando in gara a luglio per i Mondiali e vincendo l’argento iridato. Ai Giochi Olimpici si è classificata quinta, senza riuscire a conquistare una medaglia, ma ha voluto subito chiarire che non sarebbe stato quel piazzamento a definirla come donna e come atleta. Le gare sono l’apice di un percorso, ma il percorso non è reso vano se le cose non vanno come ci si aspetta. Una consapevolezza condivisa da tanti, come il collega Tommaso Marini, che ha ammesso che la scherma era diventata il suo grande amore tossico e che adesso è «una parte importante e ingombrante della mia vita, ma non l’unica».
Andando oltreoceano la stella della ginnastica mondiale Simone Biles, che è riuscita nell’impresa di accendere i riflettori sull’importanza della salute mentale, ha raccontato nel suo documentario “Simone Biles Rising” che credeva che Tokyo 2020 sarebbe stata la sua ultima competizione perché non era più in grado di avere il controllo della sua mente e del suo corpo. A Parigi 2024, invece, è tornata in grande stile, ma ha ammesso che per farlo ha dovuto prendere una lunga pausa dalla ginnastica, fermarsi e concentrarsi sulle altre cose importanti della sua vita: la famiglia, gli amici, il marito, gli svaghi di una ragazza di ventisette anni. Ha così imparato che la sua esistenza non ruotava solo attorno allo sport, ma allo stesso tempo questo distacco le ha fatto capire l’amore ancora fortissimo verso la sua disciplina, cosa che le ha dato la forza per tornare.
«Lo sport riguarda il viaggio e non la destinazione», ha spiegato Ambra Sabatini, campionessa paralimpica a Tokyo 2020 nei 100 metri nella categoria T63. Quest’estate non è stata fortunata neanche per lei, che si è ritrovata a cadere a pochi metri dal traguardo quando era in testa alla gara. Il sogno della doppietta è sfumato, ma non la gratitudine per la vicinanza ricevuta dalle colleghe, né la curiosità per il futuro, che a soli ventidue anni è tutto suo.
Adesso occorre un cambiamento anche in chi segue lo sport per comprendere che nessun risultato è dovuto e che ogni prestazione è il frutto di un lavoro: non sempre nei momenti clou si riesce a esprimere il massimo e questo può succedere perché non si riesce a gestire lo stress o perché in quei pochi minuti o secondi ci si gioca tutto e ci possono essere mille variabili o, magari, semplicemente perché gli avversari in quel momento sono più forti. Accettare questo è alla base dello sport. Chi lo ama lo sa.