“Sette cose che mi ha insegnato lo Sport”, il racconto di Irene Sarpato, attivista autistica ed ex pallavolista
Racconto (con morale) di Irene Sarpato, attivista autistica, Global Advisor della Fondazione Billion Strong a autrice del romanzo “Strano diario”.
Lo sport mi ha insegnato tutto quello che so su allenamento, disciplina, rispetto, sconfitte, fallimenti, errori, imparare, rialzarsi e ricominciare con più grinta per la partita successiva, sull’accettare di stare in panchina e rimanere motivata, sul lavoro di squadra e su come infondere calma e fiducia nelle altre persone.
L’ho realizzato recentemente, quando una collega mi ha fatto notare che io ho “sempre i migliori messaggi motivazionali da condividere nei momenti difficili”. È stato come se il nastro della videocassetta della mia vita si riavvolgesse e mi sono ritrovata negli anni ’90.
Avevo circa dodici anni quando ho capito che mi piaceva la pallavolo e volevo praticarla. Erano gli anni di Mila e Shiro, Mimì e Midori e io passavo ore a palleggiare contro un muro o con la mia migliore amica. Bello, sì, ma vorrei giocare una partita vera in una squadra vera.
“La bambina è un po’ introversa e non proprio coordinata nei movimenti e poi non è molto alta, non ha prospettive nella pallavolo… forse uno sport individuale come il nuoto andrebbe meglio per lei”, dicono. Ma io no, voglio giocare a pallavolo. E alla fine ce la faccio, i miei genitori mi iscrivono.
Felice e un po’ preoccupata, inizio gli allenamenti. Sto concentrata, cerco di memorizzare tutto quello che dice il mister, i movimenti giusti. Mi alleno mettendoci tutta me stessa. La preparazione atletica è intensa e faticosa ma non è quello il problema. Sono alcune compagne di squadra che mi prendono in giro perchè sembro “imbambolata” quando il mister spiega, non faccio battute e non rido a quelle delle altre, sono strana e impacciata. Quando sono di spalle, mi tirano pallonate in testa o mi fanno “la vecchia”, spingono col ginocchio nell’incavo del mio ginocchio per farmi piegare la gamba e cadere. E tutte a ridere di me.
Dopo gli allenamenti, mi rannicchio sulle scale di casa a farmi un pianto. Un giorno mia mamma mi vede e mi dice: “Per te è importante giocare a pallavolo. Hai insistito tanto per farti iscrivere e ora vuoi mollare per quattro bulle che ti prendono in giro e ti fanno gli scherzi?”.
No, non voglio mollare. Tengo duro, non reagisco alla violenza, continuo a concentrarmi, allenarmi e imparare. Leggo libri sulla tecnica e gli schemi di gioco. Guardo tutte le partite che posso. E naturalmente ogni tanto piango. Ma mai durante gli allenamenti.
Una volta dico al mister che non trovo giusto che qualcuna in squadra prenda in giro le compagne. Il mister finalmente interviene e dice pubblicamente che certe cose non sono tollerate. E mette le bulle alla spalliera a fare addominali. Alla buon’ora. Finalmente ci sono regole e disciplina. Due cose che mi fanno funzionare bene.
Alla fine della preparazione atletica, le “quattro bulle” si ritirano perchè lo sforzo è troppo per loro e anche perchè non amano essere riprese dal mister e fare fare addominali aggiuntivi. Vengono persino i padri a lamentarsi che le ragazze sono trattate con troppa severità, che in fondo sono solo un po’ esuberanti.
Risultato: loro vanno, io resto.
Primo insegnamento: a volte bisogna saper tenere duro. Ogni persona deve sapere quando vale la pena di tenere duro e quando invece è meglio lasciar andare. In ogni caso, bisogna avere la forza di parlare delle ingiustizie che subiamo. Altrimenti da sole non finiscono.
Inizia il campionato e io sto in panchina. “Si vede che me lo merito” – penso – “Non mi alleno abbastanza, non sono abbastanza brava, non so stare in squadra con le altre”. Il mister però non mi ha mai detto niente del genere e neanche le compagne. Non mi torna.
Una sera, durante una partita di allenamento, il mister mi dice che sono proprio brava al servizio. Prendo coraggio e, col cuore che esce dal torace, gli dico: “Mister, alla prossima partita io voglio provare a entrare in campo”. “No” – risponde lui – “tu non proverai, tu entrerai in campo dall’inizio, da titolare”. Ma come? Era così facile?!
Secondo insegnamento: nella vita bisogna farsi avanti e anche chiedere. Nessuno può sapere cosa abbiamo nella testa e nel cuore se non manifestiamo i nostri interessi, desideri e volontà.
Finalmente entro in campo. Arriva il mio turno al servizio. Mi concentro come so fare io. Faccio i miei tre palleggi, mi alzo la palla e bam! Ace. La mia battuta segna un punto. Gran casino sugli spalti. Le compagne vengono a battermi il cinque. Io sto calma e concentrata. Tre palleggi, mi alzo la palla. Ace. Ne segno cinque su sette battute. Sì, sono brava al servizio. Perdiamo la partita tre set a due. Sì, sono brava al servizio ma non basta. A muro sono scarsa, non ho fermato neanche una palla. Me l’avevano detto che non sono abbastanza alta. Sono un po’ giù per questo.
Nell’allenamento successivo, col mister ripassiamo la partita. Senza giudicare nessuna. Di ogni azione si sviscerano le cose che hanno funzionato e quelle da migliorare. Ognuna dice cosa ha apprezzato delle altre e a cosa dovrebbero stare più attente. Ci incoraggiamo a vicenda. E ci mettiamo tutte quante d’impegno. Io faccio salti con la palla medica per migliorare la mia elevazione e mi esercito ad essere più precisa al servizio. Ci abituiamo a chiamare la palla e ad alzare la mano quando sbagliamo. E quando qualcuna sbaglia le altre le danno il cinque e via, si riparte.
Terzo insegnamento: ricevere e dare feedback basati sui fatti, con esempi precisi e senza giudizi, è lo strumento più potente che abbiamo per aumentare la nostra consapevolezza e decidere su cosa lavorare.
Infatti, a metà campionato, capisco che saltare con la palla medica serve a poco, il muro non fa per me. Allora decidiamo che, invece di andare a muro, posso coprire la compagna che salta, così se ci fanno un pallonetto io sono lì a riceverlo. E infatti funziona.
Quarto insegnamento: non è detto che dobbiamo lavorare su ogni punto di miglioramento che abbiamo. L’obiettivo, infatti, non è essere perfette ma essere compensate e compensare, fare la nostra parte e contribuire al successo della squadra col nostro peculiare talento. La forza di un team sono i suoi membri e la forza dei singoli membri è il team.
Iniziamo anche ad andare a mangiarci una pizza insieme dopo le partite. Sia che vinciamo sia che perdiamo. Perchè è giusto che ci divertiamo e celebriamo anche l’impegno che ci abbiamo messo, al di là del risultato. Una volta invitiamo anche la squadra avversaria. La partita l’hanno vinta loro con uno scarto di tre punti. È stata una gran bella partita e ci siamo divertite molto. Alla fine, quando ci diamo il cinque sotto la rete, ci facciamo i complimenti a vicenda.
Quinto insegnamento: lo sport non è (solo) competizione ma (deve essere) soprattutto divertimento. Un’occasione di socializzazione e di crescita, senza ansie da performance e con rispetto anche per gli avversari e le avversarie. Scopro che così mi piace. Divento quella che incoraggia e motiva tutta la squadra. Anche quando mi infortuno e sto in panchina.
Verso la fine del campionato, il mister viene da me con un pezzo di nastro adesivo per le dita in mano. Me lo appiccia sotto il numero della maglia. “Sei capitana”. Mi viene da piangere, questa volta per motivi diversi, ma mi trattengo. “Non so se sono in grado” dico. “Lo stai già facendo, questo è solo un pezzo di scotch che ufficializza la cosa”, dice lui.
Sesto insegnamento: capitana o capitano non è la persona più brava, più alta, più bella, più simpatica ma la persona più umile, quella che riconosce i propri errori e si sforza per migliorare, quella che sa incoraggiare e sostenere il team e i singoli membri nei momenti difficili e sa tenere unita la squadra nei momenti di tensione e sconforto.
Tipo quando finisce il campionato e perdiamo l’ultima partita arrivando quarte. Per ogni ragazza della squadra io dico una cosa positiva che l’ha distinta, in campo o nello spogliatoio o in panchina. Nonostante mio padre mi chiami “Capitana del quarto posto”. Cioè quella che non ha saputo vincere abbastanza. Dopo ogni partita a cui assiste, mi fa l’elenco di tutto quello che sbaglio. Se non entro in campo si arrabbia, perchè, con tutti i sacrifici che fa per farmi giocare, si aspetta che io giochi sempre e con un altro risultato. Faccio presente che quarte su sedici squadre non è poi così male. “Sì, ma il terzo posto era meglio”. Difficile non diventare ipercritici e ipercritiche verso se stessi e se stesse quando la famiglia non ti aiuta ad apprezzare i tuoi piccoli progressi e successi. Un ragazzino o una ragazzina che subisce questa sistematica diminuzione potrebbe essere incline a ripetere il modello in futuro, come genitore o allenatore/allenatrice o manager, in un contesto lavorativo. Questo, alla lunga, demotiva anche le persone più motivate e le rende più inclini a svalutare il lavoro delle altre persone.
Settimo insegnamento: nell’infanzia e nell’adolescenza si formano la personalità, il carattere, la visione del mondo e di sè. Comincia a definirsi cosa vogliamo fare “da grandi” e, più importante, che tipo di persone vogliamo essere. In questo processo di crescita, consapevolmente o meno, i modelli giocano un ruolo fondamentale e gli adulti che abbiamo intorno sono, che lo vogliano o no, i nostri primi modelli. E ciò che più conta non è tanto ciò che gli adulti dicono quanto come si comportano.
Inizio a capire che essere ascoltati, supportati e incoraggiati in questi anni di formazione ha un enorme valore. Un bel giorno, quando gioco ormai nell’Under 21, una ragazza dell’Under 14 mi dice che per lei sono un esempio, perchè sono sempre motivata e non ho paura di sbagliare. Capisco che è arrivato il momento di passare qualcosa di quello che imparato grazie allo sport su allenamento, disciplina, rispetto, sconfitte, fallimenti, errori, imparare, rialzarsi e ricominciare con più grinta per la partita successiva, sull’accettare di stare in panchina e rimanere motivata, sul lavoro di squadra e su come infondere calma e fiducia nelle altre persone… Poco tempo dopo, lascio l’agonismo e inizio ad allenare una squadra di minivolley. Qualche anno dopo, divento formatrice. Poi mentore. E anche la collega che ha “sempre i migliori messaggi motivazionali da condividere nei momenti difficili”.