Olimpiadi diffuse? Una vecchia storia: ripercorriamola.
aMI.CO., la rubrica che ci accompagnerà verso le Olimpiadi 2026 di Milano-Cortina.
di LUCIA GALLI
In principio fu Torino 2006, ma in fondo anche Salt Lake City 2002 e perfino Nagano 1998 si erano già impegnate nel new deal richiesto dal Cio, comitato olimpico internazionale. Affondano, quindi, al secolo scorso i tentativi, tutt’altro che embrionali, di realizzare olimpiadi diffuse sul territorio, rispettose dell’ambiente perché capaci di non inventarsi (quasi) nulla, ma di riutilizzare e riconvertire, più o meno virtuosamente, strutture in larga parte già esistenti.
CAMBIA IL SECOLO. In Giappone, tuttavia, le Olimpiadi invernali 1998, le ultime a portare il segno di AT, l’Alberto Tomba nazionale, sembrano davvero di un’altra epoca: le gare, pur dislocate nella regione di Nagano, interessavano dei sobborghi di questo enorme distretto. A Salt Lake City le sedi cominciarono ad essere multiple e furono sostanzialmente due, con Park City a fare da coprotagonista. Per questo possiamo, invece, affermare, senza tema di smentita, che è stata l’Italia, con Torino e le valli olimpiche a “trazione Sestriere”, a lanciare, nel nuovo millennio appena iniziato, l’idea di una olimpiade a due teste. Una in città ed una fra i monti.
IL COLLE E TORINO. Su e giù dal Colle, le XX olimpiadi invernali, insieme ai IX giochi Paralimpici 2006 misero in fila tutte le mini capitali del comprensorio della via Lattea per quanto riguarda le sedi degli sport della neve, da Pragelato a Pinerolo, da Bardonecchia a Cesana Torinese, passando per Sauze d’Oulx. La vera news fu il coinvolgimento di Torino downtown, città fra i monti, capitale “pedemontana” come tradisce anche l’origine del nome Piemonte, ma fino ad allora così lontana dall’immaginario di chi vada per salite e crode. Torino, insomma, eccezion fatta per il fatidico colle di Superga e il triangolo perfetto del Monviso all’orizzonte, si era sempre sentita, forte anche della sua profonda dimensione industriale, più urbana che montana.
MEDAGLIE SULLA VIA LATTEA. E invece le montagne, quelle alte, di confine con la Savoia francese, le aveva alle spalle. E vent’anni fa le scoprì: mentre la città si regalava un nuovo metrò e dei palazzetti per ospitare gli sport del ghiaccio, in montagna si sono rifatti il trucco i principali resort, collegati in uno dei più antichi domaine skiable internazionali, che oltre il colle del Sestriere svalica fino ad oltre il Monginevro.
MAI PIU’ CATTEDRALI NEL DESERTO. Ex novo? Furono costruiti, invece, i trampolini di Pragelato e il budello di ghiaccio di Cesana Torinese, due delle più meste cattedrali del deserto, impianti oggi in degrado o smantellati, che nostalgicamente ci ricordano quanto in fretta il tempo passi in questa “tregua” olimpica, soprattutto se non si fanno dei piani concreti per il riutilizzo degli impianti. Ma tant’è. Con Torino il dado è stato lanciato.
VANCOUVER 2010 Quattro anni dopo, i Giochi invernali han fatto ritorno nel nuovo mondo, per la terza volta in Canada, dopo Montreal 1976 e Calgary 1988. A Vancouver avevano già recepito la lezione: in città e a Richmond si concentrarono gli sport del ghiaccio (budello di bob escluso), mentre, a 120 km di distanza e due ore di viaggio, le montagne di Whistler – dove, per esempio, abbiamo colto l’ultimo oro al maschile, con lo slalom di Giuliano Razzoli -, si concentrarono gli sport della neve con bob, slittino e skeleton. Fra i “pro” di questa divisione bipartisan, furono una logistica più semplice almeno per gli atleti, fra i “contro” un minor senso di famiglia olimpica, con atleti divisi e minor clima “da villaggio”.
SOCHI 2014 Passano altri quattro anni e le Olimpiadi invernali continuano il loro tour, andando sempre più ad est, lontanissimo dal cuore alpino della loro tradizione fondante. Nel 2014 i Giochi invernali si svolsero addirittura… sul mare. Certamente parliamo del mar Nero, cuore profondo del Krasnodar di Russia, ma le palme, i grattacieli ed i sanatori sulla promenade dell’immenso lago salato di Sochi fecero storcere il naso a molti. Ancora di più Adler, che era la cittadina vicina, dove fu sbancato anche un cimitero per far posto ai palazzetti del ghiaccio del parco olimpico. Dov’era la neve bianca su quel mar Nero? A Krasnaja Poljana, ad oltre 70 km e più di un’ora di viaggio, pur al netto del treno veloce costruito ad hoc come parte più concreta della legacy olimpica. Il cluster della neve rivelò piste anche molto belle, panorami bradi fra dacie dei vip, ma quei casinò lungo il fiume, tutti nuovi, somigliavano tanto, secondo gli europei, a degli outlet nel nulla e, infatti, ai russi piacquero molto. La neve, poca per i Giochi di quel febbraio, era comunque garantita anche dal confine super presidiato con la Georgia. Sochi, inoltre, dopo i Giochi è diventato anche sede di molti altri eventi sportivi non solo invernali – in primis il Gran Premio di Russia che si è corso fino al 2021 – per una scommessa forse ardita, ma in fondo vinta.
PYEONGCHANG 2018. Altri quattro anni e i Giochi si spinsero oltre il Sol Levante: la Corea del Sud non coinvolse la capitale Seoul, ma ospitò la cerimonia di apertura nello stadio di Daegwallyeong per poi far traslocare gli atleti sulla costa est. Il cluster della neve si stabilì a Jeongseong che aveva già ospitato anche la coppa del Mondo di sci alpino l’anno precedente. Il ghiaccio prese casa sulla città costiera di Gangneung. Nemmeno questa volta, insomma, il mare era lontano: neve asciutta ed aria secca non convinsero tutti, anche se per l‘Italia arrivò il primo oro olimpico in una discesa, firmato Sofia Goggia.
PECHINO AL QUADRATO. Con il covid dove potevano essere già stati programmati da tempo i Giochi? Mentre quelli estivi slittavano al 2021 a Tokyo, quelli invernali, potenza del destino, si svolsero proprio in Cina, a Pechino, che nel 2022, diventò così l’unica città ad aver ospitato sia i Giochi estivi, nel 2008, sia quelli invernali, perfino sotto pandemia. Forza della globalizzazione, in una città non solo “proibita”, ma blindata per virus, si svolsero tutte le competizioni del ghiaccio, con atleti e media che vivevano divisi in “bolle” sanitarie diverse e continui test e tamponi. In montagna i siti olimpici furono due: Zhangjiakou e Yanqing. Ad oltre un’ora di viaggio e 100 km dalla capitale, avrebbero dovuto diventare la nuova frontiere dello sci per i tanti cinesi che, con curiosità ed impegno, si volevano avvicinare allo sci. I risultati di questa immensa impresa di marketing sportivo non sono ancora noti. Ma quattro anni valgono bene una tregua olimpica e il beneficio del dubbio per una sfida molto ardua. Adesso, però, è ora di tornare in Europa, sulle Alpi e nel Belpaese della neve e del bianco. E nel 2030 toccherà la Francia per un derby che l’Italia non può perdere.
CREDITS photo FISI