“Scuola e sostenibilità: c’è l’impegno dei Club di Serie A, ma manca un impatto reale”.
di FRANCESCO MAFERA
Intervista a Stefano D’Errico di Community Soccer Report (seconda parte).
Adesso, invece, entrando nel cuore di questo confronto, mi concentrerei più su una delle questioni cardine del vostro rapporto cosi come della filosofia di QPNews, ovvero quella strettamente connessa alla dimensione sociale. E le chiedo: in che misura il calcio inclusivo, attraverso iniziative come le squadre special, sta trasformando la percezione della disabilità e dell’integrazione sociale all’interno delle società sportive?
“Il cosiddetto “calcio special”, come viene definito in gergo il movimento promosso dalla Divisione Calcio Paralimpico e Sperimentale della FIGC, è una realtà oramai ben radicata nel nostro panorama calcistico a vari livelli. La Serie A vede una partecipazione massiccia, con tutte le società che nel 2023/2024 hanno schierato una loro portacolori. È chiaro, però, che parlando parla di calcio inclusivo non ci si possa “limitare” solo al campo. È certamente un ambito importante, ma da solo non basta a promuovere quel concetto di inclusione – trasformandone quindi anche la percezione generale, ad esempio – che è evidentemente più complesso e articolato.
Servono, in altre parole, anche altre soluzioni, che però i Club sembra stiano gradualmente mettendo a punto. Il 60% delle società, ad esempio, ha promosso anche una serie di iniziative a livello locale (eventi, esperienze, campagne, progetti educativi), e il 45% ha oggi a disposizione un pacchetto di azioni per facilitare l’accesso delle persone con disabilità all’esperienza matchday attraverso servizio di trasporto dedicato, radiocronache specifiche, oppure utilizzo della LIS nelle sue comunicazioni. Insomma, passi in avanti verso un’interpretazione sempre più variegata e completa di questo importante tema”.
In che modo le squadre di Serie A stanno creando sinergie con il sistema scolastico per trasmettere valori educativi attraverso il calcio e quale impatto sta avendo questo approccio nelle nuove generazioni?
“Il connubio calcio-scuola è qualcosa che da sempre caratterizza l’impegno delle squadre di Serie A sul territorio. Abbiamo ritrovato simili iniziative nel 95% delle società, e si tratta di una percentuale non lontana da quello che abbiamo riscontrato anche nelle precedenti edizioni del nostro report, confermando quanto detto in precedenza riguardo alla continuità generale e l’interesse verso questa categoria di partecipanti. Tra l’altro, sempre più Club iniziano a dare riconoscibilità ai propri programmi, coinvolgono molto spesso i propri tesserati (calciatori e calciatrici, staff, ecc.), e si occupano di argomenti su cui possono potenzialmente avere un’importante voce in capitolo (su tutti la diffusione dei cosiddetti “valori dello sport”, o il “tifo corretto”).
La questione, in quest’ambito, non è però discutere o meno la presenza di simili proposte per le nuove generazioni in sinergie con le scuole locali, quanto più proprio il concetto di “impatto”. In che misura, in altre parole, questi progetti hanno veramente la capacità di portare un cambiamento positivo, nel pieno rispetto del contesto educativo in cui si inseriscono. Dai dati che abbiamo raccolto ci siamo accorti che meno del 20% delle iniziative ha la forma di un vero e proprio programma didattico (quindi fatto di vari appuntamenti all’interno di un percorso che evolve), e soprattutto solo 1/3 coinvolge lo stesso gruppo di beneficiari per più di una manciata di esperienze. Servirebbero, dunque, maggiore continuità e programmazione a lungo termine per cogliere al massimo le opportunità che questo contesto offre. La sfida che abbiamo lanciato nel report è quella di riuscire a creare un modello di lavoro unico per tutte le squadre, che poi le stesse possono declinare sulla base delle esigenze specifiche della propria comunità. Una cosa che fanno molto bene in Premier League (e lo so per certo, lavorando direttamente a questi programmi da anni), e che sono fermamente convinto possa essere replicato anche in Italia con gli stessi risultati positivi”.
Come stanno evolvendo le strategie di governance delle squadre di Serie A per rispondere alle sfide della sostenibilità e quali pratiche innovative stanno emergendo in questo campo?
“Quando detto un attimo fa sulla scuola credo che sia il risultato di un approccio e di una mentalità che ritroviamo anche nella governance della sostenibilità nel nostro calcio. Trattandosi della dimensione che dovrebbe regolare, monitorare, diffondere e tradurre l’impegno più concreto sul territorio e per l’ambiente, se impostata in un certo modo contagia poi il lavoro poi realizzato e a cui noi “esterni” assistiamo.
Uno dei dati chiave in quest’ambito è che il 60% delle società di A non ha oggi una formula chiara ed individuabile che regoli queste pratiche da un punto di vista strategico. Mancano, in molte realtà, una direzione generale e una cornice operativa entro cui inserire le proprie proposte. Manca la loro proiezione nel tempo, e spesso anche un racconto dedicato e specifico (una rendicontazione formale dell’impegno per la sostenibilità è qualcosa che oggi solo 2 club di Serie A pubblicano).
Se questo il bicchiere mezzo vuoto, l’altra metà parla invece di alcune squadre con già a disposizione una visione chiara e ben delineata di questo lavoro, con un paio di queste proposte maturate negli ultimi 12 mesi. Un segnale – ci piace pensare – di una consapevolezza diffusa sull’importanza di questi temi che si sta gradualmente trasformando in qualcosa di sempre più concreto e ben impostato.
La speranza è che questo slancio positivo prosegua e contagi anche altre società. Anche perché i tempi lo richiedono in maniera sempre più vincolante. Il quadro normativo a livello europeo sta cambiando, chiedendo maggiore trasparenza e specificità nel proprio lavoro. La UEFA sta gradualmente rendendo i criteri legati alla sostenibilità più stringenti. E infine, il panorama di soggetti attorno al movimento Serie A si sta facendo sempre più attento e interessato anche a questo tipo di dinamiche. Insomma, più di un motivo per mettersi al lavoro come si deve”.
Qual è il valore aggiunto che le fondazioni benefiche delle squadre di Serie A offrono alla comunità, e come riescono a integrare l’aspetto sociale con quello calcistico in modo efficace e duraturo?
“Quello delle fondazioni benefiche nel calcio è un argomento a me molto caro, che vivo da vicino quotidianamente e di cui sperimento in prima persona dinamiche, situazioni e benefici. Anche per questo abbiamo deciso di dedicare un capitolo del nostro report a questo tema, speranzosi di aprire un dibattito su questo argomento che, ad oggi, non sembra caratterizzare il tipico approccio all’impegno sociale dei nostri Club.
I dati parlano di solo 4 società con a disposizione un simile veicolo (potremmo spingerci a 6 considerando anche i “progetti speciali”). Qualcosa che va in assoluta controtendenza con quanto vediamo ad esempio nel resto dell’Europa: solo considerando i maggiori campionati (Inghilterra, Germania, Spagna, Francia), le percentuali oscillano attorno all’85% di società con a disposizione una loro charity, con la Premier che la fa decisamente da padrona (il 100% dei Club inglesi affida il lavoro nella comunità ad una fondazione, e questo vale anche per tutte le squadre delle categorie inferiori).
Queste considerazioni inducono a variare il tempo verbale della domanda, affidandoci il condizionale. Più realisticamente, si può parlare di che valore aggiunto “offrirebbero” questi veicoli dedicati all’impegno sociale. E penso che possa avere un potenziale importante, potendo dotarsi di uno strumento impegnato unicamente su quel fronte, capace veramente di dare fondo alla capacità del calcio di essere agente di cambiamento per le comunità che rappresenta. Questo, ovviamente, sempre alle giuste condizioni: una “scatola vuota” lascerebbe esattamente allo stesso punto di dove siamo ora, e servono inoltre competenze specifiche.
Esempi virtuosi di cosa voglia dire integrare una fondazione nelle proprie dinamiche operative per la sostenibilità li abbiamo comunque anche in Serie A. Perché, dunque, non partire dall’esperienza positiva di questi protagonisti, dando magari un’occhiata anche a quanto succede fuori dai nostri confini, per provare a capire ed eventualmente diffondere maggiormente questa interpretazione del lavoro?”.