Delinquenza di pochi, porte chiuse a tutti: è la via giusta?
di STEFANO RAVAGLIA
Le porte chiuse nello sport ormai sono diventate quasi una costante. Ricordo ancora vent’anni fa un Inter-Shakthar Donetsk disputato senza nessuno dopo i disordini della curva interista nel derby di Champions League di quattro mesi prima: la curva nord lanciò fumogeni addosso a Dida, portiere del Milan, e nel preliminare della stagione successiva, in estate, niente pubblico a San Siro. Ma allora le porte chiuse erano ancora una specie di rarità. Si ricorda quanto accadde nel 1985-86 in Coppa dei Campioni tra Juventus e Verona: porte chiuse a Torino che suonavano come una beffa, perché la decisione della Uefa fu presa a causa dei fatti di Bruxelles, dove un gruppo di tifosi juventini si erano resti protagonisti di incidenti quando invece si è benissimo a conoscenza che la portata della tragedia e soprattutto le responsabilità, furono imputabili per la maggiore alla tifoseria del Liverpool.
Negli ultimi anni invece ad ogni piè sospinto scattano le porte chiuse. L’ultima vicenda in ordine di tempo è quella che riguarda Rimini-Forlì di basket, semifinale del playoff di serie A2, la seconda serie del basket italiano, dove due gruppi di riminesi e forlivesi sono venuti a contatto lontano dal Pala Flaminio dandosele di santa ragione fuori da un bar con spranghe, sedie e quant’altro, prima di gara-2 disputata a Rimini. Porte chiuse dunque a gara-3 e eventuale gara-4, in casa forlivese. Tornando al calcio, lo scorso anno, durante Udinese-Milan (chi scrive era presente in tribuna stampa) uno sparuto gruppo di tifosi bianconeri dietro la porta di Maignan prese a insultare in modo razzista il portiere francese che per tutta risposta uscì dal campo salvo poi tornare sui suoi passi. Risultato, porte chiuse a tutti. Motivazione? “Perché il resto del pubblico non si è dissociato”.
Ora, premesso che tutte queste decisioni vanno rispettate e sono figlie di una negligenza in partenza, resta obbligatorio chiedersi che senso continua ad avere fare di tutta l’erba un fascio e punirne 100 per educarne zero. Se questi episodi continuano ad accadere evidentemente chiudere le porte non è il deterrente: oltre a pesare anche sugli incassi e quindi sulla sopravvivenza di una società, specialmente se a bassi livelli e in sport comunque meno seguiti del calcio (dove già il botteghino rappresenta una voce minore nel computo delle entrate) impedisce al bambino, alla coppia, al genitore, alla famiglia, a un gruppo di amici, totalmente incolpevoli di quanto accaduto (tra l’altro a chilometri di distanza dalla sede di gara) di dover star seduti sul divano per colpa di altri.
Credo che oggi le scuse per individuare chi si macchia di questi gesti non esistano più: telecamere, daspo, stadi e palazzetti militarizzati, processi per direttissima, tutti strumenti ormai consolidati ed evidentemente sconfessati da questi provvedimenti. E allora probabilmente dover colpire nel mucchio significa un po’ mettersi la coscienza a posto da parte delle istituzioni (chiudo a tutti così faccio vedere che sono bravo e non avremo sicuramente altri problemi) scaricando responsabilità, e un po’ pensare che tutti siano delinquenti, quando in realtà la stragrande maggioranza non lo è. “Pagano tutti per colpa di pochi” sarà anche una frase banale, ma è l’assoluta verità.
Vis Pesaro-Rimini, sempre di basket, poche settimane fa, fu vietata ai riminesi e per solidarietà anche la curva pesarese, acerrima nemica dei romagnoli, restò fuori. Anche le istituzioni condannarono il provvedimento. “Trasferte libere” compare in molti stadi d’Italia, perché calcio e basket in questa battaglia si abbracciano. E allora insisto, prendiamo solo i responsabili e diamo l’esempio: separiamo quelli che sono i colpevoli veri, dai non colpevoli. A pagare devono essere solo e soltanto i primi, perché l’alunno che non ha rubato la merenda non può essere additato come colpevole se il malandrino è il suo compagno di classe e quel giorno casualmente si trovavano insieme.