La passione, “il nostro datore di lavoro”
EDITORIALE di Luca Corsolini
Ci chiamiamo QuartoPosto e, non bastasse, ci siamo dati un programma, scarno ma preciso: essere derisultatizzati. Fino a quando la Treccani non definirà meglio il neologismo, possiamo spiegarlo con il nostro sogno e, prima, bisogno, quasi vitale, di evitare di salire su quelle montagne russe dove lo stesso risultato visto da una parte è un successo, e visto dall’altra è un fallimento. Per noi il risultato è poco, di sicuro non è il succo dello sport.
Chiamarci QuartoPosto ci mette però anche nella condizione di ragionare su uno dei motti fondanti dello sport. Non per stabilire chi ha detto che L’importante è partecipare, frase che tutti per convenzione, cadendo in errore, attribuiamo al barone de Coubertin. E neanche per completare la frase e spogliarla dell’intento che tanti le attribuiscono di sminuire l’importanza del risultato.
C’è un significato storico nella frase che arriva fino a noi e la diventare contemporanea, di nuovo un motto fondante dello sport. Ai tempi delle prime edizioni dei Giochi, L’importante è partecipare voleva dire che gareggiare significava schierarsi per lo sport nascente. Non ci fossero stati i primi atleti, non ci fossero state le prime edizioni dell’Olimpiade molto provvisorie, precarie verrebbe da dire, perché il programma era inevitabilmente la fotografia di uno sport ancora in fasce ( e magari dovremmo sapere, noi, che le prima società sportive in Italia sono nate parecchio prima di Atene 1896, con un contributo dunque anche nostro all’intuizione di un francese e, in realtà, di tanti europei ), non fosse stata la partecipazione una forma di comunicazione per presentare a tutti lo sport non saremmo arrivati ad oggi.
Niente accensione della fiamma olimpica, niente viaggio della torcia ( in effetti il primo fu per i Giochi di Berlino 1936, idea, guarda un po’di Hitler ), niente cerimonie di apertura ( meglio in uno stadio che lungo un fiume, di sicuro meglio tenendo al centro lo sport e non soffocandolo con il resto ), niente inni con i medagliati sul podio a tenersi una mano sul cuore, niente sedici giorni di campionati mondiali di un numero enorme di discipline condensati nella stessa città ( oppure andando fino a Tahiti per il surf che certo non era nei pensieri dei primi organizzatori ). Anche niente, giusto precisarlo, Paralimpiadi. E nemmeno, infine, parità di genere visto che de Coubertin era abbastanza contrario allo sport femminile.
Cosa vuol dire oggi, passate tante bufere, i boicottaggi, i fallimenti economici, il varo di un’agenda che impegna, il Cio prima e i Paesi organizzatori poi, a una maggiore definitiva degli eventi sportivi, diventati nel frattempo, in quei sedici giorni e non solo, l’equivalente delle Sette meraviglia di un tempo, the best of us, il meglio di noi, ovvero dell’umanità, come diceva un promo del Comitato Olimpico di qualche anno fa ?
Cosa vuol dire che l’importante è partecipare e, aggiungiamolo, farlo nel rispetto delle regole ma anche della propria passione, sapendo di partecipare a una gara che vale quattro anni di allenamenti, di sacrifici pure ? Un altro dei motti fondanti dello sport moderno, citius, altius,fortius, più veloce, più in alto, più forte, è stato completato a Tokyo, nell’edizione più triste dei Giochi, triste e comunque meravigliosa nel rappresentare lo sforzo dello sport di rimettere in piedi il mondo dopo la pandemia, da una parola che un latino poco classico ha fotografato in communiter, tradotta molto più efficacemente nel linguaggio spiccio da tempi social in together.
Oggi l’importante è partecipare significa che lo sport oggi deve vivere together con la società: insieme. Partecipare significa esserci, presentarsi, sporcarsi le mani pure. Esisteva un problema di sostenibilità ai Giochi del 1896 ? Ovviamente no: non esisteva nemmeno il concetto di sostenibilità. Ma partecipare è ancora una forma di comunicazione: se lo sport vuole avere un’alta parte, come merita. non può voltarsi dall’altra parte rispetto ai problemi della società: la sostenibilità, la crisi ambientale, il razzismo, le guerre, l’integrazione, l’inclusione, tutti i macro temi che poi, a livello locale, diventano emergenze minori solo per dimensioni ma non per sostanza.
Ci chiamiamo QuartoPosto perchè crediamo che lo sport non sia un posto altro, e semmai che debba avere il coraggio di essere alto, liberandosi dall’autoreferenzialità che lo ha schiacciato, specie in Italia, negli ultimi anni. Abbiamo ridotto tutto, troppo, a un risultato invece di raccontare che c’è tutto un mondo che gira ogni giorno ( sì, una canzone dei Matia Bazar. Dice anche che quel mondo non possiamo fermarlo ). Bisogna rispettare i singoli sapendo però che un altro valore fondante dello sport è il gioco di squadra.
Quindi sì, l’importante è partecipare è anche un invito a scrivere, a non vergognarsi di presentare la propria squadra, la propria società, il proprio evento qui, sapendo di essere letti, e riletti, da persone che, quando anche volontarie, come siamo in tanti, nonostante il tentativo di definirci in altro modo con una legge sullo sport, sono dipendenti del nostro stesso datore di lavoro: la passione.