Sponsor ed etica: il caso delle 100 calciatrici contro la Fifa
di ALESSIO BERTON
E se fossero i calciatori a decidere gli sponsor? Una domanda provocatoria, ma fino a un certo punto, la cui risposta potrebbe rivoluzionare il mondo del calcio come lo conosciamo.
L’idea è nata da un gruppo di cento calciatrici professioniste, le quali hanno inviato una lettera alla Fifa in seguito all’annuncio di Infantino della partnership con un’azienda petrolifera saudita, l’Aramco, in vista dei prossimi mondiali maschili (2026) e femminili (2027). Le atlete non hanno gradito la scelta della massima organizzazione del Calcio mondiale di prendere finanziamenti provenienti da una società stanziata in Arabia Saudita, un paese noto per la mancanza di tutele riguardo i diritti civili.
SPORTWASHING
“L’Arabia Saudita è regime autocratico che viola in maniera sistematica i diritti delle donne e criminalizza la comunità Lgbtq+”, ha dichiarato Sofie Junge Pedersen, calciatrice danese dell’Inter Femminile, nonché una delle firmatarie della sopracitata lettera, in un’intervista all’Ansa datata metà ottobre. La sponsorizzazione sportiva infatti, servirebbe come diversivo per distogliere l’attenzione dalle vicende interne al paese, un modo per pulirsi l’immagine. Una pratica assai nota, che ha preso il nome di sportwashing.
UNA PROPOSTA ALTERNATIVA
Nella lettera però, si fa riferimento anche a un comitato con rappresentanti dei giocatori che possa prendere parte alla decisione su quali sponsor scegliere; ed è qui che ci vogliamo concentrare. Sono moltissimi i punti di vista da analizzare su questo tema così delicato che racchiude un intreccio di questioni economiche, politiche, etiche e sportive.
Certo è, che una tale rivoluzione sarebbe indubbiamente una scelta eticamente corretta. Gli atleti infatti, scendono in campo pubblicamente mostrando il proprio volto associandolo a moltissimi marchi imposti dai rispettivi club; brand con cui magari i calciatori non ne condividono gli ideali di fondo.
PRESSIONI ESTERNE
Un’iniziativa a dir poco rivoluzionaria, e proprio per questo, e per i numerosi interessi celati sotto al mastodontico tappeto delle sponsorizzazioni, di difficile realizzazione. Un’eventuale delegazione di rappresentanti dei calciatori adibita all’approvazione dei brand da pubblicizzare esporrebbe maggiormente gli atleti, i quali ad esempio, potrebbero essere oggetto di pressioni esterne che potrebbero inficiare sulla carriera, sia in modo positivo, che negativo.
Qualche multinazionale potrebbe convincere i giocatori a votare in proprio favore, garantendo magari un salto di qualità in qualche club prestigioso; viceversa, un calciatore potrebbe essere escluso dal gioco per motivi legati agli sponsor.
Una commissione composta da membri eletti dagli atleti ma che non hanno un ruolo di campo, potrebbe risultare una soluzione efficace a questi problemi.
LA PROSPETTIVA DEI CLUB
Bisogna però guardare anche la prospettiva delle società, le quali vedono nelle sponsorizzazioni una buona fetta dei propri ricavi, e mettere a rischio la sostenibilità finanziaria in nome dell’etica sarebbe sicuramente moralmente encomiabile, ma allo stesso tempo un clamoroso autogol finanziario.
Dopotutto, gli atleti sono stipendiati dai club, e se questi impongono un certo sponsor, diventa difficile per calciatori e calciatrici dire no. A meno che tu non sia Johan Cruijff e fai togliere una striscia nera dalla divisa perché Puma è il tuo unico brand. Ma di Profeta del Gol ce n’è stato, e ce ne sarà uno solo.
Intanto l’idea è stato lanciata, in attesa che qualcuno la raccolga e la trasformi in qualcosa di concreto. L’unica cosa certa per ora, è che la strada per la realizzazione di questo progetto sarà a dir poco ardua, considerando come il colosso petrolifero Aramco sia stato confermato nuovamente dalla Fifa fra gli sponsor principali dei prossimi mondiali, con buona pace delle cento calciatrici e della loro lettera.